Per chi è fuori dal sistema è sempre più complicato anche solo denunciare il sistema. Perché se osi pubblicamente smascherare le malefatte del potere, il potere reagisce sempre più spesso con querele in sede penale per diffamazione e con azioni civili per offesa alla reputazione. Sia ben chiaro non è consentito mai diffamare, ma non può essere diffamazione dire la verità sgradita al potere.
Quando ero pubblico ministero in Calabria e fui travolto da uno tsunami istituzionale che fermò il nostro lavoro che riguardava il fiume di denaro pubblico depredato e i legami tra ‘ndrangheta, politica, apparati dello Stato e massonerie deviate, fu intercettata dai Carabinieri una conversazione telefonica in cui il Presidente della Regione Calabria, già Procuratore Generale in Calabria, come una sorta di nostradamus, presagì che avrei passato tutta la vita a difendermi perché la mia azione aveva talmente colpito tanti che quando sarebbe scattata la reazione sarebbe stata adeguata.
È andata come l’aveva prevista: la reazione ha portato alla nostra distruzione professionale e passati quasi 20 anni da quella intercettazione siamo ancora a difenderci per aver solo ubbidito all’articolo 3 della Costituzione: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il contrario di quello che vuole il sistema: la spada di ferro con i deboli e la spada di latta con i forti. La storia ha dimostrato dove sta la verità e il tempo è stato galantuomo, ma decine e decine di procedimenti si sono abbattuti contro di me perché evidentemente ho osato investigare sul crimine istituzionale che arriva sino al cuore dello Stato.
Sono uscite nei giorni scorsi le motivazioni di un’importante sentenza della Corte di Cassazione, che vale come precedente per tutti, che ribaltando assurde condanne in primo e secondo grado, mi ha definitivamente assolto dal reato di diffamazione nei confronti di un alto magistrato perché riconosce che ho esercitato il diritto di critica. Statuisce la Suprema Corte che le frasi da me pronunciate dovevano essere collocate in un contesto inquietante, in cui si era giunti ad ipotizzare che l’avocazione dell’indagine “Why not”, di cui ero titolare, fosse l’illecito portato di un accordo criminale raggiunto fra i magistrati interessati e personaggi del mondo politico ed imprenditoriale.
Ne deriva, secondo la Corte, che le espressioni, indubbiamente forti e certamente polemiche, da me rilasciate, non trasmodando in meri insulti personali, dovevano considerarsi giustificate dal complessivo contesto in cui si erano inserite (anche considerando che chi le aveva pronunciate ne era stato, dell’ipotizzato accordo corruttivo, la vittima).
È durissimo lottare per la verità e per la giustizia, ma non si deve mai mollare e mai essere complici del sistema.