NAPOLI – Quando si porta un nome che conta, il legame di parentela può proteggere più delle scorte armate. Era così per Cosimo Di Lauro ai tempi in cui Secondigliano era il ‘feudo’ di famiglia. Bastava essere il figlio del milionario per non dover temere di girare per le vie del quartiere senza doversi guardare continuamente intorno, senza abbassare il capo e farsi trasportare a tutta velocità verso covi nascosti mentre i mirini delle pistole si muovono rapidamente da una direzione all’altra pronti ad offendere per difendere.
Cosimo Di Lauro era ‘protetto’ dal cognome che portava, dal potere di cui godeva la cosca, dal carisma e dalla diplomazia che avevano fatto del padre uno dei più influenti boss della camorra napoletana degli ultimi tempi. “Girava sempre accompagnato da due guardaspalle – racconta un investigatore che in passato si è occupato delle indagini sul clan di Cupa dell’Arco – ma non erano armati per ordine del giovane boss. Di solito si muovevano in moto”.
Mai un fermo per possesso di armi. Il rampollo del milionario non aveva bisogno di mostrare il ‘piombo’ per farsi rispettare. Aveva imparato dal padre che il rispetto si conquista con il potere e il carisma del leader. Cosimo era solito frequentare un bar della zona. Come lui, i suoi fratelli.
“Li vedevo solitamente fuori al bar di mmiez’all’arco e al bar ‘degli amici’ del Perrone – rivelò Pietro Esposito, un tempo vicino ai fedelissimi della cosca di Secondigliano e primo grande accusatore dei signori della prima faida -. Ma poi le cose cambiarono – spiegò in uno dei suoi primi interrogatori da pentito nel novembre 2004 quando nella periferia nord imperversavano i venti di guerra -. In quei giorni era in pieno svolgimento la cosiddetta faida di Secondigliano e nessuno si faceva vedere in strada, tantomeno i Di Lauro”.
La scissione e il feroce botta e risposta di morti ammazzati per vendetta e per rancore, prima ancora che per desidero di autonomia e di potere sul controllo del narcotraffico, influenzarono abitudini e stili di vita. Le precauzioni furono raddoppiate, moltiplicate. Vivevano tutti da latitanti anche quando non avevano ancora motivo di sfuggire a polizia e carabinieri. Ieri come oggi. ‘F4’ potrebbe essere una coordinata da battaglia navale, ma ‘F4’ è anche un codice identificativo. ‘F4’ sta per quarto figlio. Il quarto di una nidiata da undici, tutti maschi. ‘F4’ è Marco Di Lauro, per lungo tempo reggente dell’organizzazione di via Cupa dell’Arco.
Camorra vecchio stampo, almeno nei simboli e nelle investiture quella dei signori del rione Dei Fiori. Il capo del clan sarebbe stato, per decisione del padrino Paolo (attualmente detenuto al 41bis) “il maggiore dei figli ancora in libertà”. Discendenza di stampo familiare, quella dei Di Lauro, con una gestione che – naturalmente – è mutata a seconda di quale testa fosse giunta sul trono del Terzo Mondo. L’investitura, secondo la regola del boss, aveva scelto Marco e il giovane boss è apparso negli anni criminalmente più maturo e consapevole della propria caratura. Il ricercato numero uno della camorra partenopea adesso è stato arrestato. Eppure negli anni ha dovuto imparare a gestirlo il clan. Emersero rimproveri e lamentele nei confronti delle decisioni dell’allora giovane Di Lauro, non le parole di apprezzamento pronunciate in altre conversazioni a favore del fratello Cosimo. Un errore in particolare veniva imputato al “piccolo ras”, quello di “di aver armato diversi affiliati di giovanissima età, i quali si erano poi resi responsabili dell’agguato ai carabinieri, a seguito del quale vennero intensificati i controlli nel loro quartiere da parte delle forze dell’ordine”. Uno storico affiliato avrebbe mosso a Marco Di Lauro l’accusa di aver armato i “giovani inesperti” addirittura di fucili mitragliatori.
Questo quanto si legge nei verbali della polizia giudiziaria che ha compiuto i rilevamenti, questo quello che ha spinto gli inquirenti ad ipotizzare un coinvolgimento del giovane nel comitato direttivo della cosca che non è stato accettato da tutti con entusiasmo. La latitanza. di Paolo Di Lauro iniziò ufficialmente il 23 settembre del 2002. Fu quello il momento in cui la procura lo indagò per associazione mafiosa e narcotraffico. Le indagini, tuttavia, erano iniziate molto prima e durarono otto anni. Sotto la lente passarono migliaia di ore di intercettazioni e le versioni di quattordici collaboratori di giustizia. Alcuni di essi, Di Lauro, neppure lo avevano mai visco in faccia. “E’ un’entità astratta” a Secondigliano, disse uno dei magistrati del pool che si occupava dei signori della faida.
Puntando la lente su amicizie influenti e appoggi logistici in tutt’Italia e all’estero, di cui avrebbe usufruito mentre era in fuga. Nel 1996 finì in un’inchiesta della procura Antimafia di Roma, accusato da un pentito della mala capitolina. Ne uscì indenne dopo sei mesi. Assolto. Il 25 novembre del 1998, comparve per la prima volta davanti a un magistrato, ma solo come persona informata sui fatti in merito all’aggressione all’insegnante del figlio. Il boss disse poche parole, assistito dai suoi legali di fiducia. Il 28 maggio 1995 alle 23.55 fu fermato a un posto di blocco nel centro di Caporetto, al confine tra l’Italia e la Slovenia su una lussuosa Mercedes. Seduto sul sedile posteriore.
Un controllo di routine, si scriverà sul verbale della polizia, nessun illecito. Un minuto dopo, Ciruzzo diventò un fantasma. Astuto, intelligente, mai spavaldo, arrivò a un passo dall’affiliazione alla mafia. Disse un pentito che solo un contrattempo impedì a Totò Riina in persona di combinarlo, ossia di affiliarlo a Cosa Nostra, durante uno dei summit a Marano. D’altronde, Ciruzzo era cresciuto sotto l’ala protettiva di un altro boss di rango, Lorenzo Nuvoletta, dal quale aveva ereditato prima ancora dei contatti coi trafficanti internazionali, lo stile del vecchio mafioso: tutto si può fare, basta che si faccia in silenzio.