Nel marasma generale che attraversa, trasversalmente, tutti i settori dello schieramento politico-parlamentare italiano, la principale fonte di dibattito è quella relativa alla durata del governo. Ovvero alla tenuta di un’intesa, quella tra Pd e M5S, nata principalmente per sbarrare a Matteo Salvini la strada dei “pieni poteri” che, come un novello Attila, il leader del Carroccio pare abbia minacciato, un giorno, di voler imboccare. Addirittura – è stato lo stesso premier Conte a paventarlo – l’ex inquilino del Viminale viene fatto passare come un pericolo per le istituzioni democratiche, uno spauracchio identico al “Flagello di Dio”, come veniva chiamato, quasi milleseicento anni fa, il re degli Unni. Un pericolo incombente, per dirla tutta, che gran parte della sinistra rispolvera ogni qual volta un leader della destra gode del favore dei pronostici. Un espediente sibillino che a quanto pare sta dando i propri frutti in Emilia Romagna, ove il movimento delle Sardine ha scatenato una vera e propria mobilitazione contro il segretario della Lega, sceso nei sondaggi fino a mettere a repentaglio una vittoria fin troppo presto rivendicata nella regione da sempre più rossa d’Italia. Salvini ha certo commesso uno sbaglio di stampo “renziano” quando ha sovraccaricato di significati diversi l’esito delle regionali, affibbiandogli un’accezione politica che oggettivamente tale consultazione non ha. Questo delle esasperazioni e delle esagerazioni, d’altronde, è un errore in cui spesso incappano i populisti, presi come sono dalla smania di doversi esporre per mantenere alta la tensione. Tuttavia innanzi a Salvini-Attila non si parerà il Papa Leone Magno di turno. Nessuno dei contraenti il “patto di governo” ha le stimmate del grande Pontefice. Di sicuro non le ha l’esangue Nicola Zingaretti, né le possiede il buon Gigino Di Maio alle prese con uno sfaldamento sempre più cospicuo dei gruppi grillini. E nemmeno Giuseppe Conte, l’ex re travicello. Lui però almeno è il più furbo del lotto, quello cioè che, con aplomb inglese, guarda al futuro con maggiore perspicacia. Sì, perché da lontano comincia a manifestarsi, a poco a poco, il disegno politico del presidente del Consiglio. Si tratta, a ben vedere, di una prospettiva di medio termine che nasce sulla falsariga dell’esperienza di Mario Monti allorquando questi fu nominato senatore a vita dall’obliquo Giorgio Napolitano, per assumere un ruolo “tecnico” con la presidenza del Consiglio dei Ministri. Terminata quell’esperienza, Monti fondò un suo partito che raccolse, alle elezioni del 2013, circa il 10% dei voti. Salvo poi sciogliersi, subito dopo, come neve al sole anche per le carenze di capacità politico-gestionali dell’ex commissario europeo. Oggi Conte vuole ripartire da Monti senza, però, ripeterne gli errori. E così, oltre a strizzare l’occhio ai centristi, sta arruolando uomini tra i dissenzienti ed i transfughi del M5S. In Campania questa situazione si è tradotta in un appoggio soft ma chiaro al governatore uscente Vincenzo De Luca. Una scelta, la sua, che ha spaccato in due il fronte dei duri e puri del Movimento da sempre recalcitranti ad un’intesa con l’ex sindaco di Salerno. Dello stesso segno appare il consenso dato a Conte – e quindi a De Luca – da un altro leader democristiano campano come Paolo Cirino Pomicino, con Ciriaco De Mita e Clemente Mastella in vigile attesa dei futuri sviluppi politici nazionali. Quale grado di scontro e di erosione potrà avere sul M5S in disfacimento l’opa lanciata dal premier? E Forza Italia, che ne sarà dei resti del partito del Cavaliere ormai in lenta dissoluzione e non proprio del tutto impermeabile alle lusinghe di governo? Se le manovre Contiane dovessero andare in porto, l’intero attuale sistema ne uscirebbe stravolto, con uno spostamento di nuove formazioni verso il centro. Il tutto a favore dei partiti della moderazione, in contrasto con l’attuale spostamento verso forze oltranziste e per certi versi destabilizzanti. Con buona pace di chi aveva criticato il sistema elettorale maggioritario, indicandolo come la causa dell’estremizzazione, senza vedere quello che invece il proporzionale ha prodotto: ovvero la Lega leader in un centrodestra nel quale FI è diventata marginale finanche rispetto al partito della Meloni. Il rilancio di una certa sinistra pauperista e statalista, che ama la leva della spesa statale e che ancora si lascia tentare dalla lotta alla ricchezza tramite la tassazione. Orbene nei prossimi mesi occorrerà guardare oltre le macerie lasciate dall’antipolitica in venti anni e dai partiti di plastica e padronali. Insomma che torni la politica vera fatta di confronto e di regole istituzionali, di programmi alternativi e competitivi, anche se questo dovrà avvenire sotto “mentite spoglie”.