NAPOLI – Ci sono le indagini e ci sono le ‘voci di dentro’ delle organizzazioni malavitose che riescono a ricostruire quei tasselli mancanti. Se gli inquirenti scoprono il ‘cosa’ e il ‘chi’, i collaboratori di giustizia riescono a fornire una lettura fondamentale sul ‘come’. Ci sono dichiarazioni importanti nell’ultima ordinanza che ha riguardato l’Alleanza di Secondigliano e, nello specifico, i Contini. Due in particolare i pentiti ‘quotati’ nel provvedimento che ha colpito l’organizzazione “se si considera il ruolo svolto nel sodalizio dai soggetti prima della scelta collaborativa”. Si parla di Teodoro e Giuseppe De Rosa, definiti “importanti partecipi del clan Contini, vicini ai capi con ruoli di elevata fiducia e soprattutto titolari di impensabili e preoccupanti influenze mafiose all’interno dell’ospedale San Giovanni Bosco, in ragione della gestione del bar e del ristorante siti nella struttura”.
Il loro racconto traccia una “desolante mappa di controllo camorristico del nosocomio pubblico, che va dall’utilizzo della struttura come luogo di incontri mafiosi o di ricezione di pagamenti usurari ed estorsivi, al controllo delle visite mediche e degli interventi chirurgici, con la compiacenza o la sottomissione del personale, in violazione di qualsivoglia regola interna; dai favoritismi illeciti al clan per false perizie o falsi referti al controllo del clan sulle ditte esterne appaltatrici di servizi vari, primo dei quali quello di pulizia”. Di fatto Teodoro De Rosa ha raccontato anche qualcos’altro. Nel verbale del 26 giugno 2015 dichiarò osservando una segnaletica: “Associo questa persona a Salvatore Botta; è uno di una famiglia del rione Amicizia; la mamma di questo se la fa molto con Rosa Di Munno; le vedevo spesso assieme”. “In particolare o lui o la mamma hanno intestato un appartamento che è in realtà di Botta e una volta io ero presente a casa di Botta. La Di Munno, alla presenza di Rosario e di quest’uomo della foto, parlavano di come fare per avere un mutuo su questa casa, come il clan faceva spesso”.
E qui si apre uno spaccato interessante. Il clan spesso fa cosi: si trovano persone pulite cui intestare la casa. Queste persone risultano “falsamente acquirenti di una casa che è di fatto però già del clan” si stipula pertanto un mutuo in banca con cui si ottengono subito liquidità; si fa la falsa vendita, poi i falsi mutuatari, vicini al clan, pagano le rate del mutuo con i soldi contanti che gli passa qualcuno del clan. “In questo modo ripuliscono soldi illeciti, che sono quelli utilizzati per pagare le rate, e allo stesso tempo ricevono le forti liquidità del mutuo che utilizzano per affari di volta in volta di interesse del clan” come la droga “e infine ottengono anche il risultato di far apparire proprietario della casa un soggetto terzo ‘pulito’. Lo so bene – specifica il pentito – perché è successo anche a me e alla mia famiglia: ad esempio la casa di mio nonno di via Arenaccia a è intestata a mio nonno e a mia zia. Fu fatto il passaggio di proprietà, me presente, con Apicella e Di Carluccio; la casa però in realtà è di Maria Aieta: sono due appartamenti in cui vive lei con il figlio”. “Mio nonno c’ha questa casa nella dichiarazione dei redditi ma i soldi per pagare le relative tasse glieli passano Maria Aieta o suo genero” conclude il collaboratore di giustizia.