Come è noto, una legge di riforma costituzionale ha “tagliato” di un terzo la rappresentanza del popolo in Parlamento. Eppure questa legge viene, quasi unanimemente, descritta come un atto che aumenterà l’efficienza delle Camere, diminuendo i costi della democrazia. Nulla di più falso. Numeri alla mano, infatti, il cosiddetto “taglia poltrone” ha portato da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 quello dei senatori. Il che, tradotto in soldoni, significherà un rapporto tra eletti e cittadini molto più elevato rispetto a quello di Francia, Gran Bretagna e Germania e, di conseguenza, una maggiore distanza tra il popolo ed i suoi legittimi rappresentanti. Tuttavia questo pur elementare “stato dell’arte” non sembra bastare ai nostri improvvisati riformatori, già pronti, come contrappeso alla riduzione dei seggi, al varo di altre modifiche costituzionali. L’elezione del Senato su base nazionale e non più su base regionale, ad esempio. Oppure la diminuzione dei rappresentanti delle Regioni che votano il Capo dello Stato. Ma anche il voto di sfiducia costruttiva al governo, ovvero l’obbligo di poter presentare la sfiducia solo se esiste già un numero sufficiente di deputati e senatori in grado di eleggere un nuovo esecutivo. A ben vedere si tratta di toppe peggiori del buco, messe lì per tappare i fori e gli spifferi che potrebbero minare la vita del governo. A chiacchiere, si attribuisce all’esecutivo (ed alle Camere) un compito alto e nobile che però, nei fatti, giustificherà e terrà ben ancorati i seggi ai sederi degli “onorevoli”. Insomma, i nostri riformisti stanno mettendo mano, inopinatamente, alla Carta Costituzionale agendo alla rinfusa, cambiando meccanismi ed equilibri secondo le necessità e le opinioni della maggioranza di turno. C’è da chiedere ai parlamentari del Pd in quale ricettacolo siano finite le solenni promesse che le regole del gioco le si cambia tutti quanti assieme perché servono alla Nazione e non a chi fa calcoli di bottega per mantenersi al potere. Erano quelli i tempi in cui ogni modifica della Costituzione mobilitava pensosi intellettuali organici alla sinistra a gridare al tentativo di colpo di Stato di Berlusconi. Viceversa, oggi, passa sotto silenzio la volontà politico istituzionale di lorsignori che trafficano intorno alla nostra Magna Carta. Sono, su per giù, gli stessi apprendisti stregoni che impallinarono la riforma costituzionale del Centrodestra nel 2005/2006 e quella recente di Matteo Renzi nel 2015. Riforme che presentavano fattezze più organiche e meno faziose di quelle stralunate propinateci, oggi, dal governo giallorosso. La sensazione è che tutto sia un furbo espediente per tenere in piedi la legislatura fino al termine, con gli attuali parlamentari timorosi di dover andare a casa anzitempo per la riduzione dei posti disponibili in futuro. L’elezione del prossimo inquilino del Colle nel 2022, sarà determinata dagli attuali deputati e senatori per poi proseguire, dopo l’avvento della nuova legislatura, con due Camere a ranghi ridotti: può costituire questa modifica un vulnus per la legittimità del Presidente della Repubblica a rimanere al proprio posto, essendo cambiata la Costituzione e la base elettorale dei grandi elettori? Ai costituzionalisti la risposta. Ma attenti, perché manca ancora la classica ciliegina sulla torta: la riforma elettorale tutta proporzionale. Un pessimo sistema che si riafferma sulla base di una propaganda farlocca e mendace. Come per la riduzione dei parlamentari, anche il ritorno al proporzionale puro veste i panni di una rivincita popolare sulla casta e sulla politica. “Dobbiamo sceglierci il parlamentare con il voto di preferenza, basta nominati!” è la vulgata di moda sui social. Assurdo. E’ solo un (falso) privilegio che ne abolisce altri ben più importanti, come quello di potersi scegliere la maggioranza che deve governare, unitamente al premier ed al programma di governo, sottraendo ai giochi di corridoio post elettorali tutte le decisioni, le trattative e le scelte che, col proporzionale, sarebbero delegate ad un sempre minor numero di parlamentari. Parlamentari, si badi bene, che avranno a disposizione lo stesso numero di poltrone per incarichi governativi e nelle migliaia di partecipate statali. A tal proposito, la domanda sorge obbligatoria: perché mai il piano Cottarelli per la riduzione delle aziende decotte partecipate dallo Stato, e parte dei ventimila (!) componenti dei Consigli di amministrazione, giace polveroso nelle soffitte di Palazzo Chigi? Il deficit delle partecipate ammonta a 5 miliardi, ma si rincorre il taglio di 100 milioni per parlamentari! Tuttavia questo non interessa a nessuno, non desta scalpore sui giornali e sui social network. Tantomeno preoccupa i riformatori per caso che oggi ci governano.