ROMA – Aveva preparato un discorso lungo e dettagliato per annunciare l’approvazione “all’unanimità” dei risultati dell’indagine conoscitiva sul fenomeno dei discorsi d’odio ad opera della Commissione parlamentare che presiede. Ma alla fine, Liliana Segre ha preferito parlare a braccio, con il cuore, e non attraverso le fredde statistiche.
“Quando sono diventata, dopo 45 anni di silenzio, testimone della Shoah – preferirei non usare mai il termine ‘olocausto’ che sembra un sacrificio dedicato a qualcuno mentre era il massimo dell’abominio – avevo 60 anni, circa 30 anni fa. Ero diventata nonna e sono riuscita a parlare a migliaia di studenti senza mai usare la parola ‘odio’. Senza mai usare la parola ‘vendetta’”, ha ricordato la senatrice a vita che ha voluto anche ribadire che lei è sotto scorta non per il suo ruolo parlamentare “ma perché sono ancora bersaglio di discorsi di odio”.
Nel corso del suo intervento Segre ritorna con la mente a quando era bambina. Una bambina ebrea vittima dei crimini d’odio che “nascono proprio con le parole”. Da piccola, ricorda, le dicevano ‘muori’. A 8 anni, quando era “innamorata della scuola, delle compagne, della maestra” ma si ritrovò “espulsa da un giorno all’altro”. Lei era diventata “una bambina invisibile”. E, assicura, “è molto brutto esserlo”.
Ma nonostante il dolore, nonostante Auschwitz, spiega che la sua vita è stata comunque “di una persona fortunata”. E sulla raggiunta unanimità dei risultati dell’indagine della sua Commissione, Segre si dice “molto contenta”. Così come lo è per l’esistenza stessa della commissione “perché – spiega – mi sembra che io debba lasciare questa eredità morale: non parlare mai di odio e di vendetta e parlare d’amore”.
Nel discorso preparato ma non letto, la senatrice spiegava come il lavoro sia partito “dalla consapevolezza della gravità dei problemi” ovvero dal fatto che “negli ultimi anni la diffusione dei discorsi d’odio è andata aumentando in maniera esponenziale e proprio con riferimento alla diffusione delle nuove tecnologie online” con punte “particolarmente preoccupanti” durante la pandemia, come denunciato anche dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Secondo un report del 2021 di Amnesty International, spiega, “risultano discriminatori/odiosi il 27% dei commenti riferiti a donne, il 25% alla comunità Lgbt, il 42% all’immigrazione”. Un dato preoccupante poiché – lungi dal volere “colpevolizzare i social e le piattaforme, men che mai limitare il diritto di espressione” – le grandi piattaforme digitali “plasmano anche i comportamenti e le interazioni sociali del mondo reale”. Con il suo lavoro, la Commissione dunque ha cercato “di individuare uno snodo strategico: un nuovo e più adeguato bilanciamento fra tutela dei diritti, in primis della libertà di espressione” e il “rispetto però della dignità della persona umana, vera cifra di una esistenza autenticamente libera”.
di Giusi Brega