Non sono pochi gli storici che, dopo più di un secolo e mezzo dall’unita d’Italia, hanno finalmente riportato nell’alveo della verità le vicende che furono alla base di quell’evento. Cancellata la falsa narrazione di un plebiscito popolare che aveva largamente invocato l’unione dello Stivale e l’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello del Piemonte, man mano sono venuti a galla fatti nuovi, ovvero conosciuti e mai narrati, insieme con una più ampia ed obiettiva rappresentazione di quel periodo. Lo stesso è valso per l’epopea garibaldina e la insurrezione delle masse stanche del regime borbonico, dell’arretratezza feudale che ancora vigeva nel Meridione. Buona parte di quell’epopea è stata ben rappresentata da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel capolavoro letterario “Il gattopardo”, magistralmente tradotto nella versione cinematografica che ne fece Luchino Visconti. Ebbene, la conquista del Sud fu il frutto di una cospirazione che si avvalse dell’appoggio degli Inglesi e della corruzione dei generali borbonici, oltre che delle promesse (mai mantenute) di sopprimere il latifondo e risollevare le sorti della povera vita dei cafoni. I britannici volevano sbarazzarsi della potente flotta navale napoletana che faceva ombra a quella del Regno Unito oltre che appropriarsi della preziosa produzione dei pregiati vini siciliani (ma non solo di quelli ovviamente). Insomma: un combinato disposto che consentì a poco più di mille uomini male armati di sgominare interi reggimenti addestrati e ben equipaggiati. Fu quella la data dell’inizio della spoliazione di un regno millenario, finito nelle mani di un re religiosissimo, Francesco II di Borbone, e poco incline alle gesta militari oltre che poco accorto nel tutelare, preventivamente, dalla corruzione (e dai prezzolati traditori) il proprio reame. A conquista avvenuta, le cospicue riserve auree e l’apparato industriale del regno borbonico furono trasferiti al Nord, nel mentre il generale Enrico Cialdini metteva a ferro e fuoco i paesi che osavano ribellarsi. Insomma se ancora oggi esiste la questione meridionale (e la disparità economica tra Nord e Sud) lo si deve, in buona parte, proprio a quella politica di spoliazione. Inevitabilmente, più cresceva la produzione industriale del Paese ed il
peso della economia e della finanza sulle scelte dei governi, più si incentivava l’idea di un Settentrione operoso ed un Mezzogiorno parassitario, buono semmai per il turismo e l’agricoltura ma sostanzialmente trainato dal Nord industriale. In disparte l’indole levantina dei meridionali ed il loro secolare disincanto verso un organizzazione sociale fatta di regole civiche e di rivendicazione dei diritti, il Sud ha sempre ottenuto vantaggi nominalistici dei quali, all’atto pratico, hanno beneficiato gli imprenditori e gli speculatori del Nord a caccia di agevolazioni e di prebende statali, destinate al Sud. Parimenti per la forza lavoro che, migrando verso il Settentrione, ha offerto le braccia allo sviluppo della grande industria, gente malamente integrata e malevolmente considerata dai ceppi etnico-sociali del luogo. L’ultimo dei tranelli per allargare la forbice tra nord e sud si chiama autonomia differenziata, che, in buona sintesi, smembra l’unità nazionale sotto le mentite spoglie di un maggiore decentramento di funzioni trasferite dallo Stato alle Regioni. Quelle, tra queste ultime, che hanno già definito un’intesa in tal senso sono la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, quindi ben assortite nel colore politico di destra e di sinistra. Tale intesa, presupponendo maggiori funzioni delegate, sottintende che in quelle regioni resti buona parte delle tasse riscosse per poter così esercitare le funzioni medesime. Si ripropone insomma quello che già succede col riparto del Fondo Sanitario Nazionale. Una parte della “torta” da assegnare viene definita per il tramite dell’intesa nella conferenza tra lo Stato e le Regioni: i criteri sono in parte indicizzati secondo parametri predeterminati (anziani, patologie croniche, servizi territoriali e così via) ma il grosso viene ripartito secondo la spesa storica, ovvero su quanto distribuito nel corso degli anni. Il risultato è che si fanno parti uguali tra diseguali, perché non si tiene conto, ad esempio, della diversa ricchezza prodotta dalle regioni e quindi del diverso gettito erariale. Per capirci: un calabrese prende gli stessi soldi di un lombardo ma quest’ultimo ha in tasca risorse cinque volte maggiori rispetto a quell’altro per potersi pagare ticket ed esami non erogati dai Lea (livelli essenziali di assistenza) dallo Stato. Lo stesso succederà per le altre funzioni identificate per le regioni con autonomia differenziata che tratteranno le tasse riscosse per finanziare maggiori servizi alla collettività. Innanzi a siffatta prospettiva poco si capisce come possano coesistere un partito nazionalista come quello della Meloni con gente come Zaia e Salvini che hanno ben altri interessi e visione di fondo. Insomma si rischia di avere un Governo nel quale debbano coesistere la diversità faziosa in favore del Nord con l’interesse nazionale. Al Sud spetterà continuare ad elemosinare avendo in sorte il ruolo di Cenerentola. Se così deve essere, meglio gridare: “ridateci i Borbone!!”.