Sono solo parolette

“Le parole hanno il valore che dà loro chi le ascolta”, scriveva Giovanni Verga in Eros. In un periodo in cui l’abuso delle parole sta nuovamente cedendo il passo all’abuso di immagini (e il mondo digitale, social – socialite e interconnesso ne è evidenza), ricordare che parolieri come Verga o come Pirandello (“Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote”) “svuotavano” di importanza il loro principale strumento di lavoro rende per assurdo l’importanza di come la comunicazione invece “infarcisca” termini e suoni di significati altri, diversi, discutibili.
Parliamo quindi di chilometro zero, ad esempio. Favorire il consumo di prodotti alimentari vicini è un modus operandi universalmente riconosciuto di buon senso, ma appannaggio di una parte della società che si definisce “buona e sensibile” perché sensibile ai temi ambientali “più di altri”. Ok, ma anche di un tale Beppe Grillo a inizio frequentazioni con la Casaleggio Associati, che di monologhi sui camion che fanno il giro d’Italia e d’Europa mezzi scarichi per portare avanti e indietro cibo ne ha fatti parecchi, facendo proseliti che sarebbero poi diventati Movimento. Ora che il lessico è globalmente cambiato si parla di sostenibilità alimentare. Cose di sinistra, qualcuno sosterrebbe (ho letto deliri sui social indescrivibili, ma poi ci arriviamo), ma in realtà argomenti e argomentazioni facilmente condivisibili e urgenti da affrontare (a prescindere dall’opinione politica). Un esempio? Il pesce dei nostri mari sta finendo: io l’ho appreso seguendo Fabio Siniscalchi di Oceanus Onlus che mi ha aperto un mondo sulla pesca sostenibile e sulle ricette in base alla stagionalità dei nostri bacini di pesca. Come fai a non condividere quindi la preoccupazione di un futuro in cui i nostri mari saranno vuoti? Per non parlare dei nostri prodotti e dell’atavico problema di un made in Italy che spesso tormenta i produttori italiani depauperati da tale titolo in funzione di altri imprenditori sempre italiani che con maggiore facilità appongono il bollino di qualità “chiudendo solamente” processi o importando prodotti di dubbia italianità? E perché non finire ribadendo la necessità di politiche che tutelino gli imprenditori italiani o ricordare dei rincari che le paste 100% grano italiano hanno subito a causa della guerra in Ucraina (e non per i rincari energetici)?
Chilometro zero, sostenibilità alimentare, tutela del made in Italy (a tavola) sono termini belli, così come l’accesso di ogni uomo (e comunità) a un cibo sufficiente (“sicurezza alimentare”) e “sano e culturalmente appropriato”. Ma se li chiamiamo “Sovranità Alimentare” per far contenti i sovranisti votanti a destra alle ultime elezioni (perché francesismi e termini d’importazione a parte di quello si parla) diventano concetti astrusi, condannabili, arzigogolati, da mettere alla berlina. Sono solo parolette, per parafrasare Edoardo Bennato: il vuoto che diventa pura propaganda, a cui si vuole dare un peso eccessivo. Della sovranità alimentare si è fatta beffe anche Laura Boldrini: l’ex presidente della Camera si è messa a ridere sui social parlando di “ananas” da mettere al bando, salvo poi ritornare a twittare dopo qualche giorno sulla solita disuguaglianza di genere declinata nel lessico (e nelle scelte di parole) della leader di Fratelli d’Italia e Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. In un’apoteosi di maschili e femminili che non cambiano di una virgola lo stato delle cose, al pari dello schwa, si dice anche che sarebbe corretto parlare di Fratelli e Sorelle d’Italia. Perché non fratelli, sorelle e non binari d’Italia? Ma ormai non attacca più: sono solo parolette, a sinistra e a destra. Il gioco è pressappoco uguale e la gente inizia a comprenderlo, e stufarsene.
*esperto di comunicazione digitale
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