SAN CIPRIANO D’AVERSA – Chiamava Luigi ‘o cocchiere “o zio” in segno di rispetto. Perché alla famiglia dello storico boss, morto nel 2018, Raffaele Diana, ha raccontato il pentito Salvatore Venosa, “era legatissimo”. La scorsa settimana è stato arrestato dai finanzieri con l’accusa di aver messo in piedi, tra la Campania e la Basilicata, un traffico illegale di carburanti da 30 milioni di euro all’anno. Ma le sue presunte attività criminali avrebbero radici lontane: per la prima volta, dicono gli inquirenti, affiorano negli anni Novanta. Facendo cosa? Nascondendo mitra e fucili del clan e interrando rifiuti nei terreni del Basso Volturno.
“Ci custodiva armi e munizioni in quantità – ha riferito Venosa alla Dda nel 2019 -. Era anche proprietario o comunque gestore di un’azienda agricola che si trova a S. Maria La Fossa. Personalmente gli consegnai all’inizio degli anni Novanta, quando era in atto la guerra con i Casalesi, dei grossi sacchi con dentro 4 Uzi israeliani, un kalashnikov, due fucili calibro 12 Benelli e varie pistole. Mi disse che li avrebbe portati e sotterrati nelle sue campagne fossatare”.
Prima di tuffarsi nel business dei carburanti, investendo, secondo l’Antimafia, i soldi della cosca casalese e stringendo un patto con la mala pugliese, Diana era attivo nel settore dei rifiuti. “Con la Biofert si occupava dello smaltimento. Noi gli avevamo garantito la nostra protezione – ha fatto sapere Salvatore Venosa -, perché questa attività richiedeva necessariamente, nei nostri territori, la presenza di un clan che ti consente di scaricare e caricare illegalmente rifiuti. Caricava nel centro-nord Italia fanghi tossici e li scaricava nelle campagne dell’Agro aversano. Tuttavia, essendo persona particolarmente avida di denaro, esagerava, tanto che i contadini cominciarono a lamentarsi pure con noi (i Venosa, ndr.) e con gli Schiavone”.
Diana, ha chiarito il pentito, di notte raggiungeva i terreni “nemmeno tanto distanti dalle sue proprietà, con camion pieni di liquami tossici, faceva delle buche, scaricava detti liquami e poi le ricopriva. Siamo nel 2002-2003. Diana ci aveva parlato delle attività in questione, io gli avevo garantito l’appoggio del clan, ma lui ci aveva detto che era ancora agli inizi, per cui non avrebbe scaricato molto”. In relazione all’interramento di rifiuti avrebbe comunque versato nelle casse dell’organizzazione mafiosa “4-5mila euro ogni 2-3 mesi”. Quando la gang mafiosa comprese che “la sua attività aveva ingranato bene, Francesco Schiavone (Cicciariello, ndr)chiese a Nicola Panaro e a Giuseppe Misso di prendere contatti con Diana – ha aggiunto Venosa – e di finirla.
In pratica gli si rimproverava di aver avvelenato le nostre zone e non più quelle lontane, al di fuori del nostro controllo. Panaro e Misso si rivolsero a me e a mio padre, che eravamo le persone di riferimento del clan per Diana. Non potevamo che essere d’accordo con le lamentele di Schiavone e aderimmo alla richiesta. Lo convocammo a casa mia. Diana cercò di giustificarsi, dicendo che non aveva sversato poi tanti rifiuti tossici, ma gli intimammo di farla finita perché aveva attirato troppe attenzioni. Mio padre gli disse che la prossima volta gli avrebbe spaccato la testa”.
Stando a quanto riferito dal pentito, l’imprenditore avrebbe avvelenato agli inizi del Duemila la periferia fossatara. E negli ultimi anni la sua famiglia è stata in grado di gestire alcuni lotti della Balzana, zona confiscata agli Schiavone, ottenendo la loro assegnazione da Agrorinasce.
La vicenda raccontata da Salvatore Venosa non è oggetto delle nuove contestazioni mosse dalla Dda a Raffaele Diana: se è stato ammanettato dalle fiamme gialle di Salerno, su ordine del tribunale di Potenza, è solo per l’ipotetica frode di carburanti aggravata dalla finalità mafiosa.