Torneremo tutti insieme alla normalità

L'intervento di Enrico Parolisi, esperto di comunicazione digitale

Nei giorni scorsi sono stato in ufficio. Ho chiuso gli ultimi lavori in sospeso, recuperato portatile e documenti, immaginando già che nelle successive ore anche per me sarebbe arrivato il telelavoro (o come si usa definirlo oggi smartworking, lavoro intelligente per differenziarlo da quello stupido evidentemente) come ennesima forma di tutela della mia azienda per prevenire rischi e ripercussioni di nuovi possibili casi di coronavirus. Ho preso un treno da Fuorigrotta a Montesanto completamente vuoto. Alla stazione ho incrociato distrattamente tante persone con mascherine disparate e colorate e gli occhi stanchi di paura.

Ce l’aveva persino il conducente della funicolare per Morghen. Ho percorso una via Scarlatti insolitamente deserta, vedendo cadere l’ultimo baluardo di socialità al quartiere Vomero. Poche voci: uno squinternato in delirio urlava e sbraitava contro i commercianti e l’umanità senza continuo logico, una coppia litigava veemente e un tablet era al centro della disputa. Per i più giovani di noi, parliamo di qualcosa di mai visto: la città ai tempi del Coronavirus.

È difficile in questo momento trovare le parole giuste per raccontare questa atmosfera surreale che si respira. Stiamo attraversando un periodo che, per la stragrande maggioranza di noi, è una novità assoluta. Stiamo combattendo un nemico invisibile e non siamo certi della strategia per batterlo. Sappiamo qualcosa, abbiamo un’idea di massima, ma non c’è nulla che sia davvero chiaro. Navighiamo a vista, improvvisiamo. Cerchiamo una guida forte a cui aggrapparci e spesso non la troviamo. Riscopriamo la precarietà della nostra umanità mentre da un lato rinneghiamo l’animale sociale che è in noi, dall’altro cerchiamo di trovare un giusto equilibrio tra responsabilità verso noi stessi e responsabilità verso gli altri.

Soprattutto, ci accomuna la paura. La paura ha tante forme in questo momento: ha la forma della persona avanti con l’età che cerca di comprendere se questo virus è a lui fatale o quella del libero professionista che spera di ammortizzare la ferita inferta da un mercato immobile per non soccombere. Ha il viso di quelli che non ci hanno capito niente e sono corsi al supermercato in piena notte e di quelli che invece non aspettavano altro che insultarli per la loro stupidità.

Ha l’incoscienza di chi scappa alla stazione per riabbracciare la famiglia al sud e la rabbia di chi inveisce contro i treni della speranza. È una chiamata al ligio dovere e alla necessità di disobbedire. È la malinconia della normalità persa e l’incredulità di ciò che accade attorno. È il controsenso di misure che sembrano spesso contraddirsi tra loro.

È una paura strana, che agita e non paralizza. Che unisce e non divide. È la tristezza che porti nel cuore in un giorno di sole per un dispiacere: chi ti guarda sa che un macigno preme sul tuo petto ma attorno a te luce e alberi che tornano a fiorire non ti darebbero motivo di non sorridere, di non guardare ammirato il mondo che dopo l’inverno torna a risplendere. È l’estate che non arriva, quel punto verso l’orizzonte a cui l’uomo volge lo sguardo sapendo che ogni goccia di sudore è un passo verso l’obiettivo prefisso.

Vittorio Feltri, tra le tante stupide e insensate provocazioni di questi giorni che – spero – servano a lui solo perché si parli del suo giornale, ha casualmente e involontariamente pronunciato un’innegabile verità: il Covid-19 sta unendo l’Italia. Una verità tangibile a tutti quando il presidente Conte a reti unificate ha annunciato l’emanazione del Decreto #iorestoacasa. Continuiamo a parlare a sproposito, ci azzuffiamo, ragioniamo come cittadini di città-Stato e non di Stato. Ma oggi siamo tutti italiani nei nostri difetti, e siamo uniti come nemmeno alla finale del Mondiale del 2006 con un obiettivo comune: tornare alla normalità insieme. Come un unico popolo, che non siamo mai stati e che dopo forse non saremo mai più.

di Enrico Parolisi, esperto di comunicazione digitale

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