Un uomo in jazz: intervista a Pietro Condorelli

L'incontro con Mick Goodrick, Joe Pass e Pat Metheny, la musica di oggi e i corsi su Youtube. Il chitarrista campano si racconta e ci racconta la sua visione del mondo.

Una piccola stanza rivestita in legno, piena fino a scoppiare. Dischi in vinile (una collezione che farebbe invidia a qualsiasi negozietto vintage del centro di Londra), cd, libri di teoria musicale e spartiti riempiono gli scaffali di due mobili che si guardano, ai lati opposti del sancta sanctorum di Pietro Condorelli, nella sua casa a Centurano (Caserta). A terra decine di custodie per chitarra impilate, diversi amplificatori, un pianoforte a muro e due leggii. Sui muri fotografie e locandine di concerti, festival e gruppi musicali ai quali il più famoso chitarrista jazz campano ha preso parte, nei suoi 40 anni di carriera (primo nella categoria “chitarra jazz” del Jazzit Award 2011, primo classificato al referendum di Musica Jazz del 2017, chitarrista della progressive rock band “Area” dal 1994 al 1996, ha suonato con Lee Konitz, Paolo Fresu, Franco Cerri, Giulio Capiozzo, Gary Bartz, George Cables, Jimmy Wood, Fabrizio Bosso, Charles Tolliver, Bob Mover e altri). C’è persino una foto che lo ritrae giovanissimo, con lunghi capelli neri e barba (“Sono stato giovane anch’io, sai?”) insieme a uno dei più grandi chitarristi della storia, l’italoamericano Joe Pass. Ma ci sono anche oggetti che parlano di altre sue passioni. Gli scacchi, ad esempio, e il karate (un foglio bianco affisso a una parete su cui sono stampate in rosso frasi in kanji giapponesi, uno dei tanti riconoscimenti ricevuti come karateka). “Ero bravo – assicura – anche se ora sono fermo da qualche mese. Ma riprenderò”. E poi ovviamente materiale didattico che utilizza per tirare su i chitarristi di domani al conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, dove da anni occupa la cattedra di chitarra jazz. Da pochi mesi ha messo in commercio il suo ultimo album, “Visions”, prodotto dalla Alma mater Ars Studio di Carlo Contocalakis, con la collaborazione dell’ingegnere del suono Domingo Colasurdo e che vede Emiliano De Luca al contrabbasso e Claudio Borrelli alla batteria (ospiti lo stesso Contocalakis come flautista, Vito Di Modugno, John Jones e Andrea Giuntini). Domani sera sarà al Piper Cafè di Montesarchio, per un concerto in trio con Gianfranco Coppola al basso e Mattia Farese alla batteria.

Il tuo primo incontro con la chitarra?

E’ una cosa avvenuta in maniera molto naturale. Vivevo a Santa Maria Capua Vetere con la mia famiglia già da qualche anno, ci eravamo trasferiti da Milano. A circa 9 anni mi trovavo a Genova, ospite di alcuni parenti. Rimasi affascinato dalla chitarra di mio cugino. Era una classica. Mi piaceva molto la sensazione di produrre note toccandola, anche se non l’avevo mai suonata. Mi sentii molto attratto da quello strumento.

E quello con il jazz?

Ho cominciato a suonare a dodici anni circa. A quindici flirtavo con la chitarra elettrica ma cominciai a suonare il basso in una band rock/jazz a Santa Maria Capua Vetere. Facevamo brani dei Traffic, di Eumir Deodato, del Perigeo. Era un genere in qualche modo imparentato con il jazz. Il pianista mi fece ascoltare dischi di John Coltrane. Poi tirò fuori degli spartiti di Duke Ellington. Iniziammo a suonare “Sophisticated Lady”. Era la prima volta che studiavo uno standard jazz. Tra l’altro era già un brano abbastanza complicato. Poi suonammo “The lady is a tramp”, la versione di Frank Sinatra. A 17 anni ci fu la svolta. Studiavo anche la chitarra classica, ma stavo per comprare un contrabbasso. Per Natale, sapendo che ero interessato a quello strumento, mi regalarono un disco di Charles Mingus e uno di Joe Pass, “Portraits of Duke Ellington”, perché lì al contrabbasso c’era il grande Ray Brown. Beh, mi dispiace per Ray ma tutta la mia concentrazione fu catturata da quel chitarrista che suonava in una maniera per me inedita. Mi sembrava di ascoltare un pianoforte o due chitarre insieme. Come disse una volta uno dei miei mentori, il chitarrista statunitense Mick Goodrick, il mondo si divide in due tipi di persone: da un lato quelle che quando apprezzano un brano alla radio comprano l’album. Dall’altro i pazzi che vogliono imparare a suonarlo. Io volevo suonare come Joe Pass.

Poi hai iniziato a studiare jazz e oggi sei un docente.

Mi sono laureato molto presto al Dams, a Bologna. Avevo circa 22 anni. Era la metà degli anni ’80. Era un corso di lettere a indirizzo musicologico. In pratica era il percorso che si faceva per diventare critici musicali. Era un ambiente molto stimolante, con dei docenti fantastici: Umberto Eco insegnava lettere, Roberto Leydi etnomusicologia, Franco Donatoni armonia, Gino Stefani semiologia. Tra gli studenti c’erano personaggi oggi molto noti, come Paolo Fresu e Fabio Morgera. Poi ho conosciuto Mick Goodrick in Italia, che mi impressionò subito e in ambito didattico è diventato il mio principale punto di riferimento. All’epoca era una specie di guru e moltissimi musicisti andavano al Berklee College of Music a Boston per studiare con lui. Una volta ero a New York per altri motivi e lo raggiunsi a casa sua. Ho anche trascritto alcuni suoi lavori per un libro che non è mai stato pubblicato. Poi lavorai con lui varie volte come interprete in Italia. Infine, ho conosciuto Joe Pass a Reggio Emilia (nella foto Joe Pass e un giovanissimo Pietro Condorelli). Facemmo un seminario di una settimana, suonando insieme. Oggi cerco ancora di migliorarmi e ogni giorno studio qualcosa di diverso per non replicare sempre me stesso. In musica ci sono tante cose che non conosco ancora e che vorrei imparare. Man mano cerco di integrarle nella mia musica. Dirò di più. Credo che l’evoluzione e l’innovazione in ambito musicale non siano solo il frutto della formazione teorica specifica e dell’esercizio sullo strumento. Se leggo molti libri che parlano di temi vari, dalla filosofia all’esoterismo, dalla cucina agli scacchi, ho qualcosa in più da raccontare a chi viene ad ascoltare la mia musica. Naturalmente è solo un punto di vista.

Qual è il ricordo più bello della tua carriera?

A Ravenna, nel giorno di Pasqua, c’erano Pat Metheny e Peter Erskine. Entrambi avevano tenuto seminari e di sera avrebbero dovuto suonare con uno dei contrabbassisti che partecipavano al corso. Fecero suonare i candidati in varie formazioni con altri allievi e Metheny ed Erskine li valutavano, analizzando ogni aspetto delle performance. Praticamente distrussero tre, quattro gruppi. Poi io e Marc Liebeskind, con Paolo Ghetti al contrabbasso, suonammo “Stella by Starlight” e “Solar”. Al momento del verdetto Metheny ed Erskine mi vennero incontro sorridendo. Mi dissero che era stato il più bel regalo di Pasqua che potessero ricevere. Infatti scelsero Ghetti per il concerto di quella sera. Una grande soddisfazione.

Quello più brutto?

Ce ne sono stati diversi, ma mi piace pensare solo alle cose positive.

Il contesto in cui ti è piaciuto particolarmente suonare.

Un musicista con cui mi piace sempre suonare è Gerry Bergonzi. Usa un linguaggio in qualche modo ancorato alla tradizione ma sempre con una logica di evoluzione. Ha molta personalità e il suo modo di fare musica mi ispira profondo rispetto. Un altro musicista italiano che amo è Enrico Pieranunzi. È straordinario. Abbiamo suonato molte volte insieme. A Roccella Ionica lavorai a uno dei suoi progetti, che prevedeva un coro di tre voci, insieme a Fabrizio Bosso e Stefano D’Anna.

Cos’è per te la musica? Qual è la sua importanza nella vita di una persona?

Non si può generalizzare, è una cosa soggettiva. Però credo che sia qualcosa che può darti la felicità, sia farla sia viverla attraverso l’esperienza dell’ascolto. Ovviamente se ci si entra in un certo modo. E credo che più la si ascolti più alto sia il livello di comprensione di essa che ognuno può raggiungere. Non mi riferisco solo alla comprensione tecnica ma anche al coinvolgimento emozionale. E poiché uno dei problemi della nostra società è che ci stiamo progressivamente disumanizzando, la musica è qualcosa che può aiutarci a conservare il contatto con la realtà, con l’essenza del reale. Oggi stanno facendo scomparire la musica, propagandando roba che è molto lontana dalla musica reale. Penso a molte delle cose che le masse giovanili ascoltano oggi. Spesso non c’è più nemmeno una progressione armonica, non c’è melodia, il ritmo è lo stesso e anche ottuso, non ci sono strumenti veri. Tutto questo allontana le persone dalla musica, che è qualcosa che ha una sua architettura, una sua complessità, un suo divenire interno, che sia musica classica, cantautorale o rock ben fatto. È qualcosa che ha un senso profondo. Il fatto di voler allontanare la musica dalla gente, facendo passare qualcosa che è un surrogato della musica, è qualcosa che credo sia deleterio per il genere umano.

C’è chi definisce il jazz musica popolare, c’è chi invece lo considera un genere che può essere apprezzato solo da un musicista. Cos’è il jazz per te?

La seconda considerazione mi sembra dettata da ignoranza. Milioni di persone hanno apprezzato e apprezzano il jazz senza essere musicisti. Il jazz è musica di estrazione popolare che ha la capacità di nascere qui e ora, di essere sempre diversa da se stessa. Da un lato ha a che fare con l’espressione emotiva del musicista, con la sua capacità di fare un lavoro di introspezione. Dall’altro è una specie di amplificatore, che prende determinate sensazioni condivise nella comunità umana e le sublima nell’arte musicale. È per questo che, a mio avviso, un bravo musicista jazz è tale non per il suo virtuosismo ma per il tipo di feeling che riesce a comunicare. Per quel meccanismo di condivisione che riesce ad attivare e che rende la sua musica suscettibile di essere recepita dalle persone che non sono abituate ad ascoltare jazz. È qualcosa che ho percepito tante volte. Ultimamente sempre più spesso. Quando riesco ad arrivare alle persone che di jazz non ne sanno proprio nulla significa che ho fatto un buon lavoro, che quello che ho fatto non è solo un’espressione del mio ego ma ho fatto qualcosa che ha scavato nel profondo di ciò che è condiviso. Come un piatto particolare, un tipo di vino o un’opera d’arte che tutti apprezzano allo stesso modo. Il senso della musica jazz, secondo me, è questo.

Come vedi lo scenario musicale contemporaneo? Spesso si sente dire che rispetto al passato oggi non ci sono musicisti che dicono cose nuove.

Mi sembra una domanda mal posta. È proprio necessario dire qualcosa di nuovo? Io non ho bisogno di ascoltare qualcosa di nuovo per godere della musica. Se ascolto Beethoven, Mozart, Charlie Parker o persino i Deep Purple o i Beatles provo delle emozioni. Oggi ci sono tanti bravi musicisti che sono molto apprezzati e un motivo ci sarà pure. Mi viene in mente un esempio su tutti. C’è un cantante neomelodico napoletano del quale tutti parlano male solo perché ha avuto più successo degli altri. Ma dico io, se ha avuto tanto successo anche fuori dalla scena partenopea, se lo ascoltano in tutta Italia, perché se ne parla male? Solo perché avendo successo è diventato il simbolo di qualcosa che si detesta? Eppure in quello che fa c’è armonia, c’è melodia ed evidentemente c’è anche feeling. Io ho suonato anche con artisti che facevano rap o altri generi. Se c’è musica io ci sono. Se non c’è proprio nulla di ciò che secondo me è musica allora è un altro paio di maniche.

Oggi è molto facile accedere a certe informazioni. In Internet ci sono corsi, tutorial, software e strumenti vari per imparare a suonare e persino per produrre la propria musica. Secondo te è una cosa positiva?

Non è facile rispondere. Prima di tutto credo che il fatto che sia più facile per tutti accedere a determinate conoscenze e a canali per esprimersi sia sicuramente una cosa positiva. Penso però che ci vorrebbe una qualche forma di supervisione che regoli il traffico, diciamo così, delle nuove proposte musicali. Qualcuno dotato di buon senso che possa segnalare al musicista di turno che magari la sua preparazione non gli consente ancora di poter dire qualcosa di interessante o di bello. Tutti dovrebbero poter accedere alle informazioni di cultura musicale. I tutorial su Youtube fanno qualcosa di buono in tal senso. Il problema è che su otto cose ce ne sono solo due buone, e non è detto che siano quelle ad avere più successo. Magari ricevono più visualizzazioni i video che contengono informazioni fuorvianti, solo perché sono meglio confezionati. Ho visto dei video tutorial interessantissimi di un trombettista, che suonava cose straordinarie e le spiegava benissimo ma la produzione era casalinga, l’audio era scadente e ora magari se li cerco in Internet non li trovo nemmeno più. Nella lotta tra la verità e la menzogna spesso è la seconda ad avere la meglio a causa del fattore numerico. La verità è una sola, le menzogne sono tante.

Come giudichi lo scenario musicale in Campania? Ci sono buoni musicisti? È possibile fare della musica il proprio lavoro qui?

Ci sono musicisti di grande talento, anche tra i giovani e non sempre vengono valorizzati come meriterebbero. Quello che manca è qualcosa che veicoli all’esterno questi talenti, in termini di comunicazione, di produzione musicale, di collegamento tra i musicisti locali e i circuiti musicali stranieri. Manca qualcuno che si faccia carico della necessità che i giovani talenti hanno di poter contare su un management serio o di una etichetta discografica che li faccia conoscere a livello nazionale o internazionale. In Campania manca questo tipo di logica di produzione. Ci sono buoni artisti ma non c’è chi, per così dire, li vende anche fuori dalla Campania. Eppure ci sono finanziamenti pubblici per realizzare qualsiasi progetto. Non capisco perché non si fa qualcosa anche per i nostri musicisti.

Il jazz è morto o, nonostante l’età, ha ancora qualcosa da dire?

Non solo non è morto ma gode di ottima salute. Si dovrebbe solo evitare di renderlo roba da intellettuali. Io adoro suonare nei club, ad esempio, a stretto contatto con le persone. Credo che in quel contesto si possa respirare di più la natura popolare di questo genere, che è ciò che lo rende ancora così seguito dopo più di un secolo.

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