Vaccini, quei messaggi fumosi

Secondo il modello più utilizzato per descriverla, il modello di Shannon-Weaver, la comunicazione è formata da un contesto in cui vi sono un mittente e un destinatario, un linguaggio comprensibile a entrambi, un messaggio contenente il contenuto, un canale su cui viaggia il messaggio. La comunicazione, sebbene vocazione innata dell’essere umano, è stata negli anni sviscerata e studiata in ogni sua forma, dalla matematica alla filosofia. Nonostante tutto, resta sempre il nocciolo della questione: c’è un mittente che deve trasferire attraverso un messaggio un’informazione a un destinatario.

Ora, nell’epoca dell’eccesso di informazione, dove per dirne una nascono start-up in Germania che devono il loro successo alla capacità di sintetizzare l’enorme quantità di informazioni che tira fuori un sistema di Industria 4.0, sarebbe auspicabile che chi è chiamato a parlare con vaste platee avesse alcuni rudimenti necessari a veicolare un’informazione chiara e immediatamente comprensibile. Questo lungo preambolo, o come si usa dire a Napoli “’sta chiammata”, viene a Franco Locatelli (coordinatore del Comitato tecnico scientifico e presidente del Consiglio Superiore di Sanità) che, dopo le constatazioni dell’EMA sul vaccino Vaxzevria di Astrazeneca, si è prolungato in un discorso che – complice l’intermediazione digitale che consente a chiunque oggi di accedere direttamente alla fonte dell’informazione – era pieno di termini squisitamente medici e ricco di avverbi di negazione, ossia “non”. Un esempio: “Al momento non ci sono elementi per non considerare la vaccinazione in chi ha ricevuto la prima dose pur essendoci un numero limitato di soggetti che hanno ricevuto la seconda dose”. La doppia negazione val bene un esercizio di logica, ma complica tremendamente la comprensione di chi ascolta. Nel tecnicismo, quindi, non solo è più difficile recepire l’informazione comunicata: “Continueremo a fare la seconda dose di Astrazeneca a chi ha ricevuto la prima, anche se i dati sono ancora pochi per fare valutazioni”. Ma è la forma, quella data dalla percezione emotiva del messaggio stesso, che desta maggior preoccupazione: manca di chiarezza, sembra voglia celare qualcosa. Un lusso che in infodemia non possiamo permetterci e che, su più larga scala, sta contribuendo a terrorizzare il Paese e il popolo che – a ragione e non a torto – inizia ad avere il terrore di farsi inoculare un qualcosa su cui si chiacchiera troppo, male e in maniera assolutamente inefficace.

Senza l’intermediazione giornalistica, l’attesa conferenza stampa di Locatelli su Italia e Astrazeneca sarebbe stata irricevibile per grandissima parte del popolo in ascolto. Del resto, Locatelli è un tecnico e si potrebbe obiettare che non è lui a doversi preoccupare della comunicazione, che ormai è disciplina a sé stante e in cui da anni vengono formati professionisti. Ma una riflessione è doverosa, proprio perché una volta abbattuto un muro – grazie ai social e alla connettività – e che ognuno può arrivare con semplicità alla fonte dell’informazione, anche lo Stato deve garantire una comunicazione efficace che sia chiara a gran parte dei cittadini in ascolto. I due anni di Conte ci hanno abituato ai guru in stile Casalino che aleggiano nei palazzi del potere, che sono però espressione partitica della politica. La comunicazione istituzionale invece è una responsabilità statale che troppo spesso è esternalizzata o affidata ai singoli staff pro-tempore (e con tutti i Governi caduti questo pro-tempore è obiettivamente un lasso di tempo brevissimo).

In Italia che – caso raro – ha un Ordine dei Giornalisti, un Ordine dei Comunicatori per accedere a ruoli chiave della comunicazione nazionale non sarebbe una cattiva idea. Del resto queste figure mitologiche, mal individuate dai codici ATECO e più volte chiamate dalla politica stessa a salvare la previdenza dei giornalisti, cosa fortunatamente per loro mai accaduta, sono chiamate oggi a un compito di estrema importanza. Una corretta comunicazione nel mondo iperconnesso e social è indispensabile e servirebbe anche da parziale deterrente alle fake-news e all’infodemia. Un esempio? L’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza del Mercato) ha sanzionato Facebook perché (come giusto e in linea con i trend globali) di fatto non spiegava bene agli utenti che decidevano di registrarsi che i loro dati sarebbero stati usati per fini commerciali. “È GRATIS” si leggeva benissimo, ma che in realtà l’utente pagasse con l’evidenza dei suoi dati no, non era per niente chiaro. Questa cosa è successa nel 2018 (sì, tre anni fa). In questi giorni molti di voi avranno visto comparire sul proprio news feed in apertura l’avviso di Facebook che invitava a leggere un “comunicato importante” su una sanzione comminata dall’Antitrust. La piattaforma social è stata obbligata da AGCM ad ammettere pubblicamente di aver fatto una marachella. La formula usata, però, è stata questa: “Le società Facebook Inc. e Facebook Ireland Ltd. non hanno informato adeguatamente e immediatamente i consumatori, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta, con intento commerciale, dei dati da loro forniti. In tal modo hanno indotto i consumatori a registrarsi sulla Piattaforma Facebook, enfatizzando anche la gratuità del servizio. Tale pratica è stata valutata scorretta, ai sensi degli artt. 21 e 22 del Decreto Legislativo n. 206/2005 (Codice del Consumo). L’Autorità ha disposto la pubblicazione della presente dichiarazione rettificativa ai sensi dell’articolo 27, comma 8, del Codice del Consumo”. Un po’ come imporre una “walk of shame” comprensibile solo dagli addetti ai lavori.

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