26000 anni di solitudine

Anche questa estate ci ha segnati con episodi raccapriccianti, adolescenti sterminatori, donne uccise per “svago”, ragazzine abusate dai loro coetanei.

Lo sgomento è forte, ma dura sempre meno, il tempo di scrollare il proprio smartphone, il tempo di inciampare nella prossima notizia, nella prossima effimera chat, il tempo di guardare l’ennesimo video svago.

Ci si abitua a tutto, e ci stiamo abituando lentamente all’orrore

Viviamo in un mondo in nove sedicesimi, la realtà si è rimpicciolita, indossiamo senza rendercene conto dei paraocchi digitali che hanno ristretto in maniera inesorabile il nostro campo visivo, la nostra sensibilità, la nostra capacità di socializzazione ed empatia.

Siamo incollati ai nostri telefoni, pardon ai nostri smartphone, siamo disposti a spendere cifre salate, per possedere oggetti super performanti, con i quali passare diverse ore al giorno in un limbo sospeso tra realtà e virtualità.

In Italia risultano attivi più di 46 milioni di smartphone, sui quali passiamo circa cinque ore al giorno.

Moltiplicando questa cifra, viene fuori un numero mostruoso: è come se la nazione passasse ogni giorno più di 26000 anni guardando i propri schermi.

Miliardi di terabyte di informazioni, possibilità infinite di accedere a servizi e di comunicare. Eppure la solitudine e il vuoto che vive questa nostra porzione di storia non ha quasi precedenti. Si tratta di infinite solitudini, di incapacità di dialogo a tutti i livelli.

La comunità intorno a noi si sta liquefacendo, il senso di protezione e di attenzione dato dalla famiglia, dagli amici, e persino dai conoscenti si è dissolto.

Ci muoviamo in un mondo distratto, indifferente, con il capo chino e gli occhi assorti nel piccolo mondo digitale stretto nelle nostre mani. Nel passaggio alla comunicazione istantanea abbiamo perso nel giro di pochi anni abitudini consolidate nel corso del tempo.

Sono lontani i tempi in cui ci si faceva gli auguri di persona, nei quali si andava a cinema o a teatro tutti insieme. Sono ancora più lontani i ricordi nei quali il quartiere era sinonimo di famiglia.

Oggi la famiglia è liquida, provvisoria

Parliamo attraverso messaggi copiati e incollati, il nostro vocabolario si sta riducendo ai minimi termini, raramente ci telefoniamo, i commenti sui social sono spesso affidati agli emoticon, stiamo smarrendo la capacità di parlare e soprattutto di ascoltare. Viviamo una vita desolata, finta, nella quale le apparenze contano più di ogni sostanza.

Abbiamo smarrito l’elemento umano, la necessità di interazione, e cosa ancora più grave abbiamo quasi definitivamente dimenticato l’importanza della condivisione.

Siamo passati dalla condivisione, intesa come azione nella quale aderire, partecipare: Condividere cioè: “cum”(con) “dividere” (dividere) dividere insieme, alla condivisione sui social media, dove il termine indica l’azione di pubblicare i propri contenuti, sulla propria pagina.

Siamo passati dal noi, all’ io, un io assoluto, in cerca di consenso, bramoso di successo, necessito di like. Viviamo una sorta di adolescenza reiterata, una affannosa ricerca della giovinezza perpetua.

Dove sono gli adulti? Chi prende le decisioni difficili? Chi si assume le responsabilità?

Non è mai colpa nostra, ma sempre di qualcuno o di qualcosa. Ritocchiamo le nostre foto e i nostri corpi con la stessa superficialità, il bisogno di accettazione ci induce a cancellare rughe e sentimenti senza pietà.

Adulti ritoccati e adolescenti “sprizzati”, una generazione senza riferimenti, dove nel 2020 circa 760.000 ragazzi tra gli 11 e 17 anni ha consumato alcol in maniera rischiosa.

In questo scenario, in questo deserto si annidano solitudini di ogni tipo, vite inconsolabili, che oramai ad un ritmo sempre più veloce, producono devastazioni disumane.

Branchi e singoli in azione, disperati assetati di vendetta, pronti a scagliarsi contro i più deboli, o semplicemente sulla prima persona che hanno a tiro.

In questa estate di guerre e di caldo opprimente sono state spente vite cosi, senza un reale motivo, per noia, per gioco, o come avrebbe detto Enzo Jannacci: “Per vedere di nascosto l’effetto che fa”.

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