Residuo fiscale, autonomia differenziata, federalismo, equità fiscale, regionalismo asimmetrico. Questo è il moderno frasario che interroga, ai fini redistributivi, il rapporto tra risorse pubbliche e territori.Il dibattito politico degli ultimi anni, su tale terreno di confronto, è stato accelerato dalla pretesa autonomia avanzata dalle tre Regioni del nord: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Una scelta, quella delle tre articolazioni legislative settentrionali, fuori da un contesto inclusivo e di solidarietà tra parti ricche e parti povere del paese, escludendo, al contrario, quella “orizzontalità” che pretenderebbe parità di trattamento tra i cittadini, indipendentemente da dove essi vivono.
La discussione avanzata dalla Lega, a rimorchio il M5S, omette un dato fondamentale: la redistribuzione delle risorse pubbliche farà trattenere le tasse versate dal nord in quei territori e scompenserà le regioni meridionali, storicamente meno ricche e virtuose. Più semplicemente vuol dire che il nord porterà via un pezzo consistente di cassa del sud, squilibrando ancor più il paese.
Tanta è la mala fede di questo Governo che sta letteralmente ignorando il contenuto dell’art. 7bis della legge n.18 del 27/02/2017, il cosiddetto decreto mezzogiorno, che prevede lo spostamento del 34% della spesa pubblica ordinaria in conto capitale per le regioni meridionali. Ciò vuol dire che ogni Ministero deve spendere quella percentuale direttamente per il sud, oltre ai fondi strutturali europei da intendersi aggiuntivi e non sostitutivi.Un’analisi dei flussi finanziari regionalizzati ci dice che, a tutt’oggi, le risorse ordinarie della pubblica amministrazione centrale vengono destinate per il 28% al sud, a fronte di una popolazione del 34%, e per il 71% al nord, a fronte di una popolazione del 66%. Se a ciò si aggiunge la mancata definizione dei livelli essenziali di assistenza, ovvero quegli standard minimi garantiti ed uguali per tutti, affinché ogni cittadino abbia pari condizioni di partenza ed opportunità, la faccenda si complica e di parecchio. Tutto qui lo squilibrio.
Questo è il non detto che inganna il nostro dibattito.Ma in tutto questo dov’è la sinistra?E’ certo che il pensiero meridionalista è stato ormai derubricato da più di un decennio dalla politica e dalle rappresentanze istituzionali. Non è più rintracciabile, in questa, la costruzione di un progetto politico-culturale che sappia essere un punto di riferimento per le giovani generazioni. A metà degli anni ’50 del 1900 la rivista mensile “Cronache Meridionali”, scritta proprio a Napoli e diretta da Giorgio Amendola, Francesco De Martino, Mario Alicata, era in grado di costruire orizzonti, vedute larghe. Insomma capace di fare società, creare protagonismo, indirizzare insegnamenti.
La proposta politica messa in onda si confrontava, aspramente, con l’altra grande rivista meridionalista, “Nord e Sud” di Francesco Compagna, Rosario Romeo, Giuseppe Galasso.La divergenza tra le due scuole di pensiero politico risiedeva nella forma primordiale di “lotta”; da un lato il pensiero gramsciano dell’egemonia della classe operaia quale elemento di conduzione della questione meridionale (Cronache Meridionali) e dall’altra l’idea di recuperare lo squilibrio tra settentrione e mezzogiorno attraverso la definizione di uno scenario europeo (Nord e Sud).
Oggi, sia pure in un’epoca di depressione (e non di boom economico), la sinistra parla di Zone Economiche Speciali (Zes), di aree di eccellenza, di decontribuzione alle imprese che assumono. Tutti strumenti che hanno una precisa idea di fondo: la competitività tra territori. Un espediente del moderno capitalismo che accentuerà ancor più le distanze non solo tra nord e sud, ma anche tra aree della stessa parte del paese.
Raffaele Carotenuto (Ex consigliere comunale e scrittore)