Gli altruisti

Uno Stato che paga un reddito a chi non lavora, distribuendo la ricchezza prodotta da coloro che lavorano, di per se stesso, è ingiusto e tiranno. Un concetto semplice ed incontrovertibile, che gli statalisti, gli idolatri dello Stato onnipresente ed onnipotente, cercano di sminuire invocando la cosiddetta giustizia sociale. Tuttavia, a ben vedere, si tratta di un ossimoro perché quel che è giusto lo è a prescindere da ogni altra finalità aggiuntiva. Gli economisti liberali, come F.A. Von Hayek, ritengono la giustizia sociale un principio assimilabile all’etica della tribù, ovvero un’elargizione continuativa, oppure straordinaria, di benefici economici destinati ad un determinato segmento della popolazione, in genere a quei ceti o blocchi sociali che maggiormente possono determinare, col loro voto, gli esiti delle elezioni.

Insomma, in nome di un principio sociale, tanto generico quanto eufonico, chi governa decide di utilizzare i soldi dei contribuenti anche per finalità politico clientelari. Una “pratica” che la sinistra pone a fondamento distintivo della propria azione politica, menando vanto di tutto questo, facendosi soccorrere da un altro principio altisonante e popolare: quello della solidarietà. Tuttavia queste pratiche di giustizia sociale non vanno confuse con quelle solidaristiche ( che alimentano il Welfare ) , perché, a differenza di queste ultime, non gravano solo sul debito pubblico, ma provocano un ulteriore ancor più grave danno al libero mercato di concorrenza. Elargire benefici ad una categoria sociale piuttosto che ad un’altra, significa incentivare i consumi di coloro che ricevono questi “aiuti” e viceversa deprimere gli altri.

Ad esempio, se il beneficio è rivolto ad una categoria di anziani, ne trarranno beneficio i venditori di generi alimentari e di medicine, di cure termali e centri sanitari. Viceversa se la gratificazione viene indirizzata ai giovani saranno privilegiati generi commerciali diversi: audiovisivi, telefonia, discoteche, locali e ristoranti, centri di svago e di aggregazione. Così per le rottamazioni e gli sgravi contributivi riconosciuti ai vari comparti industriali, finendo per agevolare la vendita e la produzione di particolari manufatti. In sintesi, ovunque lo Stato rivolga la sua preferenza, turba la dinamica del mercato. Peraltro lo Stato agevola comparti economici nei quali egli stesso opera in regime di monopolio.

Se queste considerazioni vi sembrano aspre e non corredate da un principio di umanità e di socialità, vi sbagliate e pure di grosso. I pericoli di certa solidarietà, ovvero della giustizia sociale, non sono da meno dei vantaggi che queste pratiche procurano alla popolazione. Più spesa a debito significa più tasse e questo significa deprimere lavoro ed imprese, ridurre la ricchezza creata. Una turbativa non solo del mercato ma della stessa democrazia rappresentativa, soggetta alle influenze delle decisioni elettorali determinate dagli elettori, qualora questi ultimi siano stati surrettiziamente orientati dal beneficio ricevuto. Un esempio di scuola furono gli annunci della abolizione dell’IMU sulla prima casa, alla vigilia delle elezioni politiche. Far pagare, come afferma il neo segretario del Pd Enrico Letta, la tassa di successione oppure applicare una patrimoniale, significa tassare ulteriormente quello che fu già, esosamente, tassato come genere posseduto. Riportare la politica sulle barricate del pauperismo significa essere molto indietro politicamente. Continuare imperterriti sulle vecchie strade della lotta alla ricchezza e non alla povertà.

Significa alimentare il parassitismo sociale e non la dignità del lavoro ed il diritto ad avere un reddito, al posto di un’elemosina statale. È contro uno Stato di questo tipo che occorrerebbe realizzare una vera rivoluzione liberale in Italia, occasione per lo più malamente fallita dal centrodestra e dal cavaliere Berlusconi che se n’era messo a capo. Perché e come sia fallita ci porterebbe lontano rubandoci uno vasto spazio del quale non disponiamo, ancorché basterebbe divertirsi a fare una ripassata dei titoli del programma di riforme istituzionali e costituzionali, politiche e sociali di quell’aggregazione parlamentare che fu il Popolo delle Libertà. Un esercizio di unione tra simili, che premi i vincitori e sottragga il governo al ricatto ed al mercimonio continuo, che consenta agli elettori di scegliere senza deleghe in bianco a chicchessia, oggi non è concepibile e praticabile.

Un sistema elettorale proporzionale relega gli elettori solo a scegliere tra le singole liste dando a ciascuna di esse un passe-partout senza vincoli per il dopo elezioni. Governi che si susseguono, che cambiano di segno politico ma che finiscono per rinverdire vecchie politiche governative anacronistiche nel libero marcato mondiale di concorrenza. Si tratta del vecchio cripto socialismo dell’uso della leva del debito pubblico per governare. Insomma di un popolo di altruisti, intesi come coloro che cercano di far del bene coi soldi degli altri.

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