di Raffaele Carotenuto*
Il Sud senza una nuova elaborazione meridionalista non va da nessuna parte. A dirlo è la storia dell’intero novecento. I primi venti anni del secolo scorso si dimostrarono fertili dal punto di vista della battaglia a favore del Mezzogiorno, innanzitutto perché i rappresentanti del Governo, tanto quanto quelli delle opposizioni, erano pervasi dall’idea che una prospettiva di sviluppo economico e civile dell’intero Paese passasse per il Sud. Una felice intuizione che portò ad alcune scelte fondamentali, ad esempio il progetto di industrializzazione voluto dall’economista Francesco Saverio Nitti e le spinte siciliane di Luigi Sturzo. Così come Gaetano Salvemini ebbe il merito di portare il movimento socialista sulle posizioni meridionaliste.
Le divergenze territoriali tra Nord e Sud, in quegli anni, dimostrarono di “non essere una componente patologica”, quindi, il recupero dei differenziali socio-economici fu il frutto di un fermento culturale di stampo meridionale che seppe collocare le scelte politiche e istituzionali, al punto da risollevare le sorti dell’intero paese.
Un rinnovato vigore venne alla luce nell’immediato secondo dopoguerra, con una serie di misure economiche a favore dell’industria e delle infrastrutture: energia, trasporto, comunicazione, bonifica di interi territori, riforma agraria. Fu questo il periodo storico di un balzo in avanti significativo della ricchezza del Sud. Tanto è vero che il Piano per il Sud, atto preparatorio fondamentale per la nascente Cassa per il Mezzogiorno, fu preparato dallo Svimez, l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, evidentemente guidata da illustri meridionalisti; un poderoso piano di sviluppo che fu condiviso dalle forze sociali e imprenditoriali, innanzitutto dalla finanza pubblica e privata e dal mondo industriale. Così sulla spinta del cosiddetto Piano Marshall per la ripresa europea si avviò nel Sud un piano di investimenti che pose le basi per la “questione meridionale”. In ogni caso, l’intuizione fu quella di lasciar “pensare” ad un pool di economisti affinché i fondi internazionali non diventassero sostitutivi delle somme economiche ordinarie statali. Un’onda lunga che arrivò fino alla vigilia degli anni ’60. Poi il declino che, con alterne vicende, si spinge fino ai giorni nostri.
Oggi, probabilmente, quella componente fisiologica delle distanze tra Nord e Sud è diventata patologica. Non basta più, quindi, parlare di risarcimento, di trasferimenti almeno pari al 40% per il Mezzogiorno, anzi, questo potrebbe diventare un’ulteriore trappola.
Qui bisogna saper rintracciare i motivi del cambiamento epocale già in atto, ovvero il passaggio dall’industria, dal tessile, dal manifatturiero alla scienza, alla tecnologia, all’innovazione digitale, alla microelettronica. Questo “nuovo” vorrebbe creare città-imprese, dove tutto si svolge in processi territoriali di competitività, lasciando indietro chi non si regge sulle proprie gambe. Si sente parlare di aree target, ovvero di “aree bersaglio” per indicare a quali imprese debbano essere rivolti gli investimenti, escludendo tutto il resto. Il Sud, al contrario, deve produrre conoscenza, creare una catena del valore che accomuni scuola, occupazione e inclusione sociale. Il Mezzogiorno deve smettere di pensare di essere subalterno. Lo deve alla sua storia, alla ricchezza e potenzialità delle sue terre, al futuro delle proprie radici. Ma può tutto questo accadere senza uno slancio culturale rinnovato, che sappia indirizzare argomenti e discussioni sul proprio destino?
Purtroppo le politiche meridionaliste, da decenni, non sono più indirizzate in nome dell’utilità e nell’interesse di questa parte del popolo italiano, per una serie di ataviche mancanze. Se la politica non risponde a questo appello da tempi immemori, solo forze nuove nella società possono contribuire a far rinsavire chi decide. E se l’accezione di un nuovo meridionalismo può spaventare, è sicuro che bisogna trovare diversi stimoli e un rinnovato protagonismo proprio in quei territori del Mezzogiorno, per provare a sovvertire quella (presunta, errata) sindrome di inferiorità che gran parte di noi ha (quasi) del tutto interiorizzato.
Il male peggiore, che diventerebbe l’errore più insanabile.
*Scrittore e meridionalista
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