Il tango del cambiamento

Lo sentite il vento del cambiamento? Risuona nelle vostre orecchie l’iconica intro del brano degli Scorpions pensando all’Italia del 26 settembre – un giorno dopo le elezioni? … no, eh? 

“Cambiamento” è stata, come al solito, una delle parole più abusate in questa campagna elettorale, che molti opinionisti della mattina al bar descrivono a ragione come la “peggiore di sempre”. Ma esattamente, cosa dovrebbe cambiare? Abbiamo dei totem dell’immutabilità politica italiana del post Tangentopoli che giocano ancora nonostante l’età un ruolo da protagonista. Abbiamo i “volti nuovi” del centrodestra che in realtà sono lì già da molti anni per definirsi nuovi. Abbiamo i nuovi movimenti che hanno fatto pesca a strascico tra le macerie degli altri: cambia il nome dell’orchestra, ma i musicisti sono sempre gli stessi. Abbiamo poi il centrosinistra che… vabbé, che ne parliamo a fare. Ma basta dare un occhio ai nomi dei candidati nei collegi per rendersi conto che di novità ce ne sono ben poche, e che anche i candidati pentastellati o ex pentastellati ormai hanno un paio di mandati e una promessa non mantenuta alle spalle. 

Nell’aere è già un tripudio di “Vince il partito del non voto”. Ma del resto per quale motivo l’italiano dovrebbe andare a votare quando, a parte simboli e nomi di partito, il resto è praticamente uguale da tempo immemore? Per vedere il solito balletto indecoroso in un teatrino di instabilità politica e fibrillazioni che non appartengono a un popolo in crisi e affamato?

Il Santo Padre, in volo di ritorno dal Kazakistan, nel consueto punto stampa a bordo dell’aereo ha risposto così a chi domandava delle imminenti elezioni italiane: “Tutti i Paesi, tra cui anche l’Italia, devono cercare i grandi politici, cioè che abbiano la capacità di fare politica. C’è un’arte, è una vocazione nobile la politica”. E poi affonda: “La politica italiana non la capisco”. Papa Francesco spiega che ha chiesto lumi ai suoi consiglieri, che gli hanno raccontato di come in Italia si siano susseguiti 20 esecutivi in 20 anni. Un dato di una semplicità disarmante, che avrebbe dovuto portare ogni successore ai caduti alla conclusione logica che riscrivere le regole avrebbe garantito una stabilità altrimenti irraggiungibile. Anche ora. Anche ora che abbiamo tagliato il numero di rappresentanti tra i soliti proclama, ma con nessuno tra Montecitorio, Chigi e Madama a pensare che sarebbe stato il caso di riscrivere anche la legge elettorale. “Quel dato di 20 governi in 20 anni – afferma Bergoglio – è un po’ strano, ma ognuno ha il suo modo di ballare il tango. Si può ballare in un modo o in un altro”. E se lo afferma un argentino, c’è da crederci.

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