In un suo bellissimo libro, dal titolo “Ottobre Addio”, scritto negli anni a cavallo tra la prima e la seconda repubblica, Ferdinando Adornato, politologo, giornalista colto e coraggioso, aveva prefigurato, con grande lucidità, molti degli scenari politici che si sarebbero presentati dopo il cataclisma di Tangentopoli. In estrema sintesi, aveva anticipato l’irreversibile scomparsa dei tradizionali partiti di massa e dei loro costosissimi apparati, che trasfiguravano i medesimi in macchine organizzative bisognevoli di continui finanziamenti palesi e occulti. La soluzione a questa elefantiasi veniva indicata in un sistema elettorale di tipo maggioritario, una democrazia diretta sul modello di quelle vigenti nei paesi di antica tradizione liberale. Un sistema elettorale “liberato” dagli arzigogoli delle percentuali di voto ottenute dai singoli movimenti, che, dopo le elezioni, si sarebbero dovuti mettere d’accordo per formare, alla meno peggio, un governo. Il maggioritario avrebbe indotto una semplificazione sia del quadro politico sia del contesto partitico che si sarebbe accorpato per affinità culturali e “visione” in due, massimo tre aggregazioni alle quali poi sarebbe toccato, in caso di vittoria, il previsto premio di maggioranza. Un sistema nel quale gli eletti sarebbero stati quelli che, all’interno di un collegio elettorale circoscritto, avrebbero preso un voto in più rispetto agli altri candidati. L’ex direttore di Liberal, il mensile politico che fungeva da think tank di cultura liberale, aveva anche lucidamente illustrato la palingenesi del sistema politico all’indomani delle aggregazioni elettorali che ben presto si sarebbero costituite in nuove formazioni partitiche, parafrasando il sistema politico. La caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Urss e dei paesi satelliti avrebbero aperto una nuova fase anche in Italia, liberando la nostra politica dai vincoli e dagli obblighi scaturenti dall’eterna contrapposizione al comunismo che aveva ingessato il contesto politico per tutto il dopoguerra. Tuttavia rispetto al sistema maggioritario non solo si avvertiva la necessità di uomini nuovi sulla ribalta politica ma anche una prassi molto diffusa all’estero: quella del continuo ricambio dei leader. Insomma il capo della coalizione vincente sarebbe divenuto il primo ministro e avrebbe formato il governo per volontà popolare espressa direttamente; il capo della coalizione perdente sarebbe stato sostituito alla guida dello schieramento da una nuova figura. Non era certo una regola ferrea quella del mutamento della leadership del perdente, ma certamente sarebbe stata da intendersi come una prassi aurea che avrebbe potuto garantire il costante adeguamento della classe dirigente ai tempi futuri. Con quel meccanismo, inoltre, si sarebbe ottenuta anche la stabilità degli esecutivi, grazie al premio di maggioranza che avrebbe consentito larghe maggioranze parlamentari e alternanza al potere degli schieramenti antagonisti. Quest’ultima condizione, quella della stabilità, è stata ampiamente realizzata nella seconda repubblica fin quando inopinatamente il tutto non è stato smantellato col ricorso, in parte, al sistema proporzionale. Quello che invece è fallito è l’altro auspicio previsionale, ovvero il costante rinnovamento della classe dirigente. Un fenomeno tutto italiano quello che rende eterni i politici, trasformandoli in nomenclature inamovibili anche quando vengono sonoramente sconfitti. Un difetto che è costato caro per aver indotto, negli anni, una strisciante involuzione del sistema maggioritario e dei suoi pregi, in favore della trasformazione delle coalizioni in federazione di partiti padronali, ridotti a simulacro di quelli di un tempo. Il piano inclinato ci ha portato di nuovo, dopo un quarto di secolo, indietro, agli andazzi della prima repubblica, a governi in equilibrio precario, ai giochi di corridoio, ai ricatti delle minoranze, a leadership che durano una vita intera. Una progressiva retromarcia che non solo rende inamovibili i leader, ma garantisce il rientro di chiunque sia stato allontanato dal consesso politico per una debacle elettorale o per altre motivazioni. E’ questo il caso dell’ultimo rientro, quello di Gianfranco Fini che, dopo un lungo esilio, ritorna nell’agone nella veste di conferenziere, assecondando il noto aforisma di Ennio Flajano: “L’insuccesso mi ha dato alla testa”. Nulla di male, si intende, che un politico di lungo corso come l’ex pupillo degli Almirante si cimenti in campo politologico. Eppure da presidente del Msi-Dn aveva guidato il suo partito verso la palingenesi di Alleanza Nazionale, prefigurando una destra moderna, interclassista sul piano economico, non più nostalgica. Un disegno poi naufragato con la fine del Pdl per sete di potere e di ambizione Gianfranco, questo lo rende poco credibile per un ritorno all’insegna del nuovo. In ogni caso meglio un vecchio arnese educato politicamente che tanti neofiti semi analfabeti. Insomma una gara tra esterni ed eterni.