Lo scorso 11 settembre, il mondo intero ha commemorato il vile attentato alle “torri gemelle” di New York da parte dei terroristi di Al-Qaeda. Un evento epocale, che certamente ha cambiato per sempre l’Occidente costringendolo a fare i conti con il fanatismo sanguinario della jihad islamica, la guerra santa musulmana. Quello che invece è passato inosservato è stato l’altro 11 settembre: quello del 1973, data del golpe militare in Cile. Quel giorno il generale Augusto Pinochet ribaltò il governo socialista retto da Salvador Allende con un blitz armato che produsse una violenta repressione con arresti, torture e deportazioni di militanti politici, studenti universitari e comuni cittadini di fede marxista. Fu, quella, una repressione crudele, che indignò i paesi democratici provocando la dura risposta dei partiti socialisti e comunisti europei che arrivarono a puntare apertamente il dito contro gli Usa ed il suo presidente Richard Nixon, accusandoli di aver appoggiato il golpe della destra reazionaria cilena. Insomma, da quel lontano paese sudamericano lo spettro del fascismo riecheggiò in tutto il Vecchio Continente, provocando quello che la sinistra amava definire un “allarme democratico”. Furono tanti i leader politici espulsi da Pinochet. Tra questi ci fu anche Eduardo Frei Montalva, capo della Democrazia Cristiana Cilena, partito che aveva governato democraticamente il Cile dal 1964 al 1970 prima della vittoria socialista. Molti esuli cileni – democristiani ma anche socialcomunisti – furono ospitati in Italia e in Spagna. Il Cile divenne un lager, un luogo di tirannia militare con migliaia di morti (circa 40.000) e di gente in fuga. Grazie alle norme transitorie della costituzione cilena, Pinochet mantenne fino al 1990 la carica di comandante in capo dell’esercito e di presidente della Repubblica, tuttavia, sconfitto al referendum popolare indetto per la sua riconferma, si ritirò a vita privata continuando in qualche modo ad interferire nella vita politica del Paese almeno fino al marzo del 1998. Quindi riparò in Spagna, col beneplacito dei suoi successori e delle forze democratiche che si andavano, via via, restaurando, per poi morire in patria nel 2006. Suo successore, democraticamente eletto, fu il democristiano Patricio Aylwin. Insomma: stiamo parlando di una parentesi tragica, che fu poi presa a paradigma anche dai generali argentini che avevano preso il potere a Buenos Aires nel 1976, dando vita ad modello di Stato dotato di un’identica impronta di violenza, costellato di morti, arresti e “desaparecidos”, vale a dire persone fatte scomparire nel nulla. Un regime che influenzò non poco le classi dirigenti del continente sudamericano. Furono quelli anni di abominio totalitaristico che spaventarono gli elettori europei spingendoli a votare per i partiti della sinistra. Sono, queste appena tratteggiate, pagine di Storia che i giovani del nuovo millennio ignorano, così come ignorano l’impegno dei tanti militanti impegnati in politica in difesa di quei valori di libertà e di democrazia la cui conquista, oggi, molta gente crede essere un’eredità “gratuita” e non qualcosa che è costata lacrime e sangue. Venendo ai giorni nostri, in Cile, alle elezioni politiche dello scorso mese di maggio, si è registrato un brusco “cambiamento” nella composizione della nuova Assemblea Costituente. E’ cioè ritornato in auge il partido republicano di estrema destra, guidato da José Antonio Kast, che ha ottenuto il 35% delle preferenze e ben 22 seggi. Assieme alla destra tradizionale – Chile Seguro (21%, 11 seggi) – praticamente l’intero blocco delle destre controllerà il processo per la redazione della futura “Ley Fundamental”, la nuova costituzione del Paese latinoamericano. E la sinistra del presidente in carica Gabriel Boric, Unidad para Chile – fermatasi al 28% dei voti e con soli 17 seggi – ha incassato una sconfitta pesante. E ridimensionato è uscito anche tutto il cartello di centro-sinistra di “Todo por Cile”. Ora, a onor di cronaca, Kast ha sempre difeso la “correttezza” dell’attuale Costituzione, promulgata nel 1980 durante la dittatura di Pinochet. La sinistra, tuttavia, teme che il leader repubblicano possa sposare le tesi liberali e liberiste in economia che da sempre vengono viste da quel fronte come il fumo negli occhi. Piccola nota a latere: mischiando ad arte il ricordo della tragica e sanguinaria dittatura, passarono in secondo piano la sciagurata politica statalista di Allende, le nazionalizzazioni, l’aperto contrasto con gli Stati Uniti e l’impronta anti capitalistica data alla sua presidenza. Una serie di provvedimenti, quelli di cui stiamo parlando, che paralizzarono letteralmente l’economia del Cile dando vita a una serie di scioperi, decisivo quello nel settore dei trasporti privati (molto diffusi in quella nazione) ed alla mancanza di approvvigionamenti delle materie prime. Non a caso Pinochet, una volta al potere, chiamò come suo consigliere, per ripristinare le libertà economiche, il premio Nobel A. F. Von Hayek, uno dei massimi esponenti della scuola austriaca e critico dell’intervento statale in economia. Insomma oltre il mito e l’icona di martire, il marxista Allende precipitò il Cile nel caos economico, che fu poi il pretesto per il golpe militare. Un demerito politico, certo, che però non fornisce giustificazioni di sorta alcuna ai golpisti, perché nessuna buona politica può avere le mani lorde di sangue.
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