Alzheimer: speranze e delusioni. La promessa dei nuovi farmaci

Oggi la ricerca si concentra sull’uso di nuovi anticorpi monoclonali. Centonze (Neuromed): "Finalmente promesse concrete"

La clinica Neuromed a Pozzilli (IS)
La clinica Neuromed a Pozzilli (IS)

Negli ultimi anni, la ricerca sui farmaci per il trattamento della malattia di Alzheimer si è concentrata sull’uso di nuovi anticorpi monoclonali (mab, dall’inglese monoclonal antibodies), che agiscono contro la beta-amiloide, una proteina che si accumula nel cervello delle persone affette da questa patologia. Due di questi farmaci, Aducanumab e Lecanemab sono stati autorizzati dall’Agenzia statunitense per i farmaci, la Fda, e hanno iniziato ad essere impiegati clinicamente negli Usa.

Questi anticorpi, come altri che li hanno preceduti ed altri ancora in fase di sviluppo, sono progettati per legarsi selettivamente alle placche di beta-amiloide nei neuroni, prevenendo la loro aggregazione e facilitando la loro rimozione dal cervello. L’idea alla base di questo approccio è che le placche siano direttamente responsabili del danneggiamento e della morte dei neuroni, quindi la loro eliminazione potrebbe prevenire o rallentare la progressione della malattia di Alzheimer. In effetti gli studi hanno visto che l’uso di anticorpi monoclonali porta a ridurre significativamente il carico di beta-amiloide nei neuroni del cervello. Tuttavia, i miglioramenti clinici, in termini di rallentamento del decadimento cognitivo, non sono stati sempre così evidenti.

Il professor Diego Centonze
Il professor Diego Centonze

“Siamo in un campo ancora nuovo – dice Diego Centonze, professore ordinario di Neurologia nell’Università di Roma Tor Vergata e responsabile dell’Unità di Neurologia del Neuromed – che ha visto negli ultimi anni molte delusioni e ora sta facendo apparire delle promesse concrete. Una possibile spiegazione per questa incertezza sui benefici clinici potrebbe essere il fatto che gli anticorpi monoclonali vengono somministrati a pazienti con la malattia di Alzheimer già presente. La patologia di solito viene diagnosticata quando i sintomi sono già evidenti e, purtroppo, il danno cerebrale potrebbe già essere irreversibile. In altri termini, questi anticorpi monoclonali sarebbero un’arma da usare il prima possibile, quando non ancora compaiono segni di decadimento cognitivo. Non dimentichiamo che un caso di Alzheimer appena diagnosticato ha in realtà alle spalle una storia antica per quanto riguarda l’origine della malattia”.

“Inoltre – continua Centonze – gli anticorpi monoclonali che stanno arrivando alla sperimentazione, o sono già sul mercato, non sono uguali tra loro. Alcuni agiscono sulle placche di beta-amiloide già formate, altri sono capaci di eliminare anche i cosiddetti monomeri (le unità fondamentali che poi costituiranno le placche, ndr). Potrebbe essere una differenza importante: l’azione sui monomeri forse porterebbe a una prevenzione più efficace della formazione di nuove placche e della loro crescita. Di nuovo, ci troveremmo di fronte alla situazione di dover usare questi farmaci molto precocemente per ottenere i massimi benefici. Sono domande importanti, per le quali le risposte arriveranno solo con ulteriori sperimentazioni”.

Gli anticorpi monoclonali sono diversi tra loro, ma lo sono anche i pazienti, come sottolinea il neurologo: “Certo, anche le differenze tra i diversi pazienti potrebbero influire sulla risposta alla terapia. Non solo l’età, la gravità della malattia e la presenza di altre condizioni mediche. Dobbiamo considerare la possibilità di differenze genetiche che forse oggi non ancora conosciamo a fondo, e che ci guiderebbero verso un approccio sempre più personalizzato, disegnato sulla persona. In generale vorrei dire che ci troviamo in un momento importante nella ricerca sull’Alzheimer, e sia i fallimenti che i successi ci stanno aiutando molto nel capire questa patologia così complessa e quali strade sono disponibili per prevenirla o combatterla”.

Conoscere l’Alzheimer

Il parco tecnologico (centro ricerche) di Neuromed
Il parco tecnologico (centro ricerche) di Neuromed

Esistono diversi tipi di demenze e tra queste la più diffusa è la Malattia di Alzheimer che deriva il nome dallo scienziato tedesco Aloys Alzheimer, il quale descrisse il primo caso nel 1907.

Le demenze sono malattie prevalentemente correlate all’età, sebbene possano colpire persone più giovani, anche intorno ai 50 anni.  In particolare la demenza di Alzheimer si manifesta all’incirca nel 5% della popolazione anziana con età superiore a 65 anni. Si ritiene che in Italia vi sia almeno un milione di persone affette.

Le cause delle demenze neurodegenerative sono legate alla perdita della capacità dei neuroni di eliminare sostanze tossiche del metabolismo cellulare come beta-amiloide e Tau, che si accumulano nei neuroni e ne determinano la morte.  Nel caso dell’Alzheimer, questo processo inizia solitamente nelle aree responsabili del consolidamento dei ricordi: in queste sedi il cervello si impoverisce di cellule e si riduce di volume (atrofia). 

Compaiono quindi i primi sintomi caratterizzati da difficoltà nel ricordare gli eventi della vita quotidiana.  Al progressivo diffondersi dell’atrofia si manifestano inoltre un disorientamento spazio-temporale, un impoverimento del linguaggio, un deficit del pensiero astratto e del ragionamento, fino alla perdita della consapevolezza di sé stessi.

Curiosità scientifica

Di italiani che hanno fatto la storia delle scoperte scientifiche e tecnologiche ce n’è in abbondanza, e con ampi riconoscimenti. Ma ce ne sono anche di quelli che, pur avendo dato un contributo fondamentale, sono stati lasciati un pò in disparte. È il caso di Gaetano Perusini, psichiatra di Udine che a Monaco lavorò al fianco di Alois Alzheimer. Il secondo aveva già individuato caratteristiche formazioni all’interno dei neuroni di una donna morta dopo anni di demenza. Ma fu Perusini a scrivere nel 1909 che quelle placche, oggi ben note come aggregati di proteina beta-amiloide, venivano create dalle cellule stesse: “Un prodotto metabolico patologico di origine sconosciuta”. Solo nel 1984 la biologia molecolare confermò questa intuizione. Ecco perché, anche se pochi lo sanno, in qualche testo di medicina la patologia viene definita proprio “malattia di Alzheimer-Perusini”. A far dimenticare il nome dell’Italiano potrebbe essere stata anche la sua morte precoce: fu ucciso da una granata a 35 anni mentre era medico volontario al fronte durante la prima guerra mondiale.

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