CASAL DI PRINCIPE – Avrà pure appeso pistole e kalashnikov al chiodo, ma di fare business, il clan dei Casalesi, nonostante retate, pentimenti e confische varie, non avrebbe mai smesso. La fazione Schiavone, secondo la Procura di Napoli, dagli anni Ottanta ad oggi, con pericolosa costanza, è riuscita a distendere i propri tentacoli su settori economici di grande rilievo, come gli appalti per i servizi della rete ferroviaria e di pavimentazione stradale. E se il gruppo guidato dall’ergastolano Francesco Sandokan Schiavone è stato capace di farlo, è grazie ad una rete di imprenditori pronti a servirlo. E proprio questa presunta trama di uomini d’affare fedeli alla mafia è stato il tema dell’inchiesta, coordinata dai pm Graziella Arlomede e Antonello Ardituro, che ieri mattina ha fatto scattare 35 misure cautelari: 19 persone sono finite in cella, 15 ai domiciliari e una è stata sottoposta all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Era stato ordinato il trasferimento in carcere anche per Tommaso Mangiacapra e gli arresti in casa per Gennaro Palmese, ma entrambi sono deceduti nei mesi scorsi. Altre 31 persone sono indagate a piede libero. Complessivamente a finire nei guai, quindi, sono stati in 64 e rispondono a vario titolo di associazione a delinquere semplice e di stampo mafioso, di concorso esterno al clan dei Casalesi, corruzione, estorsione, trasferimento fraudolento di beni, violenza privata, riciclaggio e auto-riciclaggio.
Ad ordinare i provvedimenti restrittivi, eseguiti dai carabinieri, dagli agenti della Dia e dal Nucleo investigativo centrale del Dap, è stato il giudice Giovanna Cervo del Tribunale di Napoli.
Oltre alle misure personali, il palazzo di giustizia ha emesso anche un decreto di sequestro preventivo di beni mobili e immobili per un valore complessivo di circa 50 milioni di euro.
L’ordinanza firmata dal gip Cervo è figlia di due inchieste riunite in un solo procedimento: una, condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo di Caserta, è stata incentrata su Nicola e Vincenzo Schiavone, originari di Casale, ma da diversi anni residenti a Posillipo (il primo è conosciuto con il nomignolo di ‘o munaciello, il secondo di ‘o trick) l’altra, realizzata dalla Dia, ha puntato a tracciare le attività illecite di Dante Apicella. I tre, ora tutti finiti in cella, erano già stati coinvolti nel processo Spartacus e nel 2005 la Corte di assise di S. Maria C.V. emise verdetto di assoluzione per Nicola e di condanna per Vincenzo e Apicella. Tutto il materiale investigativo raccolto dopo quel verdetto, supportato dalle recenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ha spinto la Procura partenopea a ritenerli “partecipi dell’anima imprenditoriale del clan dei Casalesi”.
L’organizzazione mafiosa, affermano gli inquirenti, grazie a Nicola Schiavone, legato a Francesco Sandokan, e Vincenzo, ritenuto più vicino a Walter (germano di Sandokan), sarebbe riuscita ad intrufolarsi nei servizi elettrici, ferroviari e telefonici con diverse compagini societarie. A consentire il tutto, oltre alla forza criminale della cosca, ci avrebbero pensato le mazzette. E proprio attraverso un giro di tangenti gli Schiavone sono giunti, ha scritto il gip nell’ordinanza cautelare, “ad acquisire rapporti privilegiati con i più alti vertici di Rfi (Rete ferroviaria italiana)”. Ipotizzata relazione di cui la stampa aveva parlato già nell’aprile del 2019, a seguito delle perquisizione dei carabinieri fatta presso gli uffici romani di Rfi e le abitazioni di alcuni degli odierni indagati.