Il caso dei possibili licenziamenti di più di quattrocento lavoratori della Whirlpool di Napoli ci offre, malauguratamente, la possibilità di imbastire un ragionamento che va oltre la vicenda sindacale in senso stretto. Naturalmente e preliminarmente bisogna esprimere solidarietà agli uomini e alle donne in carne ed ossa che si sono trovati da un giorno all’altro gettati nella disperazione, perché perdere il lavoro è una tragedia morale e materiale. Bisogna anche riconoscere che il sindacato ha reagito immediatamente e, una volta tanto anche il sistema dei media si è mobilitato.
Quest’ultima constatazione ci introduce nel ragionamento più ampio di cui dicevamo in premessa. Se si fa eccezione, infatti, di giaculatorie retoriche, nel nostro paese come in tanti altri, la questione del lavoro, delle condizioni dei lavoratori e quella, connessa, della crescente disoccupazione (e della cattiva occupazione), sono da troppi anni sparite dal discorso pubblico, quasi fossero delle questioni laterali da trattare con atteggiamento burocratico, convenzionale. In poche parole il dramma, perché tale è, della fine del lavoro tradizionale che sconvolge la vita quotidiana di milioni di persone e mette in discussione la stessa struttura politica e sociale del nostro mondo, quel dramma non suscitasse emozioni, sentimenti, di rabbia come di generosità.
Niente, il problema è l’immigrazione, il nemico è lo straniero (anche se non si vede o non dà particolari fastidi), i problemi sono la casta, il vitalizio di poche migliaia di persone, le persone normali che non dicono parolacce e provano a non vestirsi male. Come se alla desueta lotta di classe si fosse sostituita una lotta antropologica fra popolo ignorante quanto virtuoso e una esigua (e quasi inesistente) fastidiosa élite.
Paghiamo il conto di questo strabismo culturale prima ancora che politico innanzitutto con l’aver consegnato l’Italia al peggior governo della sua storia repubblicana. Pagano il conto gli inglesi con la catastrofe della brexit, rischia la democrazia americana e con essa l’intero mondo occidentale.
Penso che lo sforzo che tutti dovremmo compiere, media, partiti, uomini e donne di cultura, è di rompere l’assedio della demagogia non per proporre una sorta di pace augustea nella quale prosperi un pigro quieto vivere indifferente alle tragedie umane, ma per proporre un nuovo terreno di confronto e , forse, anche di scontro al centro del quale si collochi la questione del lavoro in stretta connessione con la rinascita della democrazia sempre più stanca e consumata.
Cambiare paradigma, modificare, come dicono gli analisti, l’agenda politica. Se il confronto politico rimarrà confinato all’interno di una lotta antropologica non è difficile immaginare che prima o poi si sfoci nella violenza. Se la vecchia lotta di classe si dovesse saldare, come in parte sta accadendo, con pulsioni razziste e campaniliste, la nostra stessa convivenza civile sarebbe messa in discussione. Proviamo a convertire la rabbia, l’odio e l’antipatia in sentimenti positivi. Se un’emozione ci deve attraversare proviamo a farci prendere da un sentimento di solidarietà e amicizia per chi rischia di perdere il lavoro.