Il copincolla male del giornalismo

Tra i mali annoverabili dalla professione giornalistica nel 2021 quello del copincolla resta uno dei peggiori. Qualche settimana fa, ad esempio, un’agenzia in una traduzione parziale del País riporta la notizia (vera) di un focolaio Covid scoppiato tra i ragazzi a Maiorca, ragazzi che hanno festeggiato la fine dell’anno scolastico tra feste private in barca o in albergo. Ne è scoppiato un caso con tanto di indagini delle autorità spagnole per individuare eventuali responsabili. Il copincolla ha generato null’altro che una notizia ugualmente mal data su innumerevoli testate web, con l’algoritmo Google che ha premiato la stessa informazione declinata cambiando giusto qualche parola tra i giornali più cliccati del web. Ma la storia era troppo ghiotta per chiudersi nella mediocrità ed ecco che alcuni tentativi di approfondimento ci sono stati.

Qualcuno ha cercato una persona sul posto, altri hanno addirittura inviato l’inviato per farsi montare un pezzo su misura delle nostre fobie. L’altro male annoverabile del giornalismo del 2021, specialmente quello televisivo (e se guardate al mio curriculum sapete di potervi fidare) è che l’inviato già sa la storia che deve raccontare. Il canovaccio a cui attenersi è già in testa e magari in scaletta. Quindi poco conta che spedisci il bell’inviato / la bella inviata di turno su un’isola a due ore di aereo per farti raccontare i fatti: l’inviata è lì per dire ciò che volevano dicesse già prima di arrivare a Malpensa o Fiumicino. Ve lo confermo, anche presuntuosamente, da questo bar da dove sto scrivendo all’estremo sud della Plajta de Palma, a ridosso del circolo Nautico de S’Arenal, in questa frazione dove tutto avrebbe avuto inizio. Ve lo scrivo in un’atmosfera paradisiaca dove l’isola spagnola, complice la sangria, il tramonto sul mare e le palme che sorgono sulla rena, sembra quasi caraibica rivolgendo lo sguardo verso la Capitale, al centro del Golfo. L’inviata, al posto di cercare la “guagliunera” responsabile di tutti i mali del mondo sull’isola, avrebbe potuto guardarsi intorno già all’aeroporto. Scoprire così che il Son Sant Joan da 30 milioni di passeggeri nel 2019 ne ha contati solo 6 milioni nel 2020, cinque volte meno. Poteva prendere un taxi e arrivare a S’Arenal dove tanti hanno chiuso battenti. Persino i Balneario, bar-stabilimenti che si susseguono sugli oltre 4 chilometri di spiaggia (per lo più libera) sono aperti uno sì e uno no.

L’enorme Mega-Park dove un tempo i tedeschi perdevano ogni freno inibitore è circondato da grosse cancellate. Girando per le zone rurali semi abbandonate dell’isola – causa turistificazione – il collega avrebbe potuto avere un’idea dell’impatto che le scelte di contenimento (non entriamo nel merito) Covid hanno portato nella più grande delle Baleari. Mentre viaggiava su un taxi, che poi avrebbe rimesso comunque alla produzione, il bravo collega poteva notare il susseguirsi di striscioni SOS Turismo e parlando con uno di quegli albergatori e ristoratori farsi un’idea di cosa succede sull’isola. E solo allora il collega poteva intuire una certa leggerezza, nell’applicazione di una normativa Covid di contenimento difficile per una realtà del genere, ben oltre la difficoltà dei giovani e meno giovani inglesi ad indossare una mascherina. Avrebbe guardato nei pullman turistici che portano allo splendido Mirador es Colomer di Cap de Formentor, nel paradiso naturista di es Trenc o all’estremo est dell’isola dove nel lago sotterraneo delle grotte del Drago un Quartetto suona sull’acqua a 25 metri di profondità il Canone di Pachabel per capire che quegli autobus forse fanno a cazzotti con le rigide regole antipandemiche da rispettare. Che la misurazione delle temperature all’ingresso di negozi e bar non è poi così abituale. Che il metro e mezzo imposto per legge tra una persona e un’altra è impossibile da rispettare fuori ai pub tipicamente anglosassoni che si susseguono sul lungomare. Che le regole ci sono e non sempre sono facilmente rispettabili, ma che per aggirarle si ricorre a stratagemmi e gli elicotteri della Policia girano e rigirano alla ricerca degli assembramenti sfuggiti a metà giugno. I supermarket marchio Spar, gestiti da arabi e spagnoli, che un tempo vendevano i secchi già pronti con le cannucce e le bottiglie da mixare per leggendarie sbornie sulla playa chiudono ora verso le 21. Soprattutto, questa angoscia da coronavirus, già di per se antitetica alla vida lenta maiorchina, non è così avvertita e forse la popolazione locale è disposta anche a chiudere un occhio di tanto in tanto, abituata ai bagordi alcolici di chi porta moneta dal nord Europa al centro del Mediterraneo. Ora che persino la produzione delle perle di Majorica si è interrotta, perdere il turista è un lusso che questa gente non può permettersi. Ecco, da un inviato mi aspetto questo racconto, o uno simile, o esattamente opposto. Venire a caccia di ragazzini birbantelli non aggiunge e toglie niente allo scopiazzamento del País di cui sopra. Da S’Arenal, Enrico Parolisi, a voi studio.

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