Il fantasma della rivoluzione liberale

Vincenzo D'Anna, già parlamentare

Dopo il crollo del muro di Berlino e la sconfitta, inappellabile e definitiva, del comunismo, è diventato normale definirsi “liberali”. Finanche l’ironico ed intelligente Pierluigi Bersani, che pure ha vissuto da protagonista tutta la storia politica della sinistra marxista (dal Pci al Pd), ha rivendicato l’appartenenza a quel credo, arrivando addirittura a difenderlo e finanche a sfidare, temerariamente, i propri interlocutori invitandoli a confrontarsi sul tema. Può farlo innanzitutto perché la politica è l’arte del divenire e chiunque può adeguare il proprio bagaglio culturale ai tempi che corrono, evitando, in tal modo, di schierarsi a spada tratta in favore dell’indifendibile, aspettando magari che il comunismo risorga come l’Araba Fenice. Ancor prima di Bersani il liberalismo è stato difeso da un uomo corretto e garbato, dentro e fuori la politica, come Fausto Bertinotti. Quest’ultimo, già comunista doc, ebbe ad ammettere, con limpidezza, di aver preso coscienza che tale dottrina aveva sopravanzato il marxismo perché “la libertà viene prima dell’uguaglianza” e che “senza la prima non si realizzerà mai la seconda”. Bersani e Bertinotti rappresentano due esempi clamorosi di conversione al liberalismo che fanno il paio con quella arrivata alla fine del secolo scorso da parte del filosofo Lucio Colletti, icona della cosiddetta “intellighenzia di sinistra”. Tuttavia sono ancora molto pochi quelli che, seppure a denti stretti, hanno sinceramente preso atto dell’eredità politica lasciata da quello che Eric Hobsbawm chiama “secolo breve”, essendo il ‘900 ricompreso tra la Prima Guerra Mondiale (1914-18) ed il dissolvimento dell’Urss (nel 1991). Ciò detto c’è da chiedersi se il successo di Berlusconi del 1994 non fosse anche il frutto di questo dato di fatto, della diffusa opinione, cioè, che la vittoria del liberalismo fosse da intendersi come definitiva. Insomma: se al di là dei meriti, dei programmi, dei messaggi suadenti e dei metodi innovativi di propaganda elettorale introdotti del Cavaliere, la chiave di volta dei successi di Forza Italia non fosse scaturita dal messaggio subluminale della Vittoria liberale, in grado di ben disporre gli elettori. Certo la vittoria azzurra fu di tipo epocale sia per la dimensione plebiscitaria da essa riscossa, sia perché quel fronte batteva la “gioiosa macchina da guerra” guidata da Achille Occhetto e la baldanzosa certezza di questi che le macerie di Tangentopoli avrebbero consegnato inevitabilmente il governo della nazione alle sinistre. Comunque sia, possiamo affermare, a posteriori, che il successo del centrodestra ebbe gli stessi effetti della vittoria che Alcide De Gasperi conseguì il 18 aprile del 1948 battendo il fronte socialcomunista. Grazie a quel successo lo statista democristiano riuscì a collocare l’Italia entro il blocco occidentale, consegnandola ad un governo in sintonia con i paesi di cultura socio economica liberale. Berlusconi, invece, sdoganò il liberalismo ed il liberismo (libero mercato di concorrenza) che fino ad allora erano parole esecrate e considerate come due bestemmie in chiesa. Con quelle idee basilari, il compianto ex premier lanciò un vasto progetto chiamato “Rivoluzione Liberale” basato sull’ammodernamento e l’efficientemento dello Stato, bolso e rifondante, il rilancio del mercato di concorrenza ed il ridimensionamento del vasto impero statalista fatto di monopoli ed aziende decotte, con il loro carico di debiti ed inefficienze. Insomma: un progetto lungimirante che andava ben oltre il classico programma elettorale, capace di aggregare più partiti in un unico blocco politico e sociale, alternativo alle forze di sinistra. Come si sia progressivamente appannato quel progetto, pensato e scritto dagli intellettuali liberali di cui si era circondato, in quel tempo, Berlusconi, è storia recente e nota. Ma al di là dell’analisi delle specifiche tappe della cronaca politica, attraverso le quali quella degradazione si realizzò, conviene volare un poco più in alto per riflettere sulle cause generali del fenomeno che ha collocato tra le cose desuete la rivoluzione liberale. Il liberalismo affronta, come dottrina politica ed economica, tutte le questioni cruciali della vita pubblica, mettendosi dalla parte del cittadino e contro gli interessi del cosiddetto “potere pubblico”. E’ questo che rende invisa la rivoluzione liberale la quale prosciuga le greppie parassitarie e le rendite elettorali, insieme con le comode pretese assistenziali dei fannulloni travestiti da indigenti. Un complesso di prerogative che rende incompatibili i vizi e gli interessi della politica politicante con quelli dello Stato moderno. Rivitalizzare quel progetto e recuperarlo per il futuro richiede una classe politica capace di rinunciare a quelle anguste ma redditizie visioni. Al di là dei proclami di circostanza, se c’è qualcuno che ha voglia e capacità di farlo, si faccia avanti.
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