Il giorno degli sciacalli

E’ passato sostanzialmente sotto silenzio l’8 settembre, il giorno che, nel 1943, segnò la resa incondizionata dell’esercito italiano agli Alleati, sbarcati in forze in Sicilia e pronti a conquistare l’intera Penisola. Lo chiamarono, usando un eufemismo, “armistizio”, ma ebbe tutti i caratteri di una vera e propria resa incondizionata. Fu annunciato alla radio, senza alcun preavviso per i nostri soldati sparsi sul vasto teatro di guerra, con un messaggio del generale Pietro Badoglio. Quest’ultimo, dopo la caduta del governo Mussolini, ancorché vestisse i panni di militare, fu messo a capo di un nuovo esecutivo voluto dal re Vittorio Emanuele III. Tutto avvenne per coprire il vuoto di potere venutosi a creare dopo la sfiducia che, il 25 luglio 1943, i gerarchi fascisti decretarono, sotto l’egida del sovrano di casa Savoia, al “loro” Duce. Nel caos determinatosi con la caduta di Mussolini, nel pieno di una guerra che ci vedeva soccombenti innanzi alle preponderanti e ben equipaggiate forze nemiche, il re sabaudo pensò bene di sbarazzarsi di chi aveva imposto la dittatura al popolo italiano. Le smanie di grandezza del regime, che avevano ubriacato un’intera nazione, in gran parte complice del regime stesso, svanivano così innanzi alla catastrofe del conflitto ed alla disfatta di un esercito male in arnese, buttato nel crogiolo di una guerra che il Duce aveva immaginato e creduto, a torto, “breve e vittoriosa” confidando in una blitzgrieg da combattere accanto ai tedeschi di Hitler nonostante i crimini da essi commessi contro l’umanità e la folle ferocia del fuhrer. Quello dell’improvviso armistizio, con il quale si annunciava, subdolamente, per voce di Badoglio, da un lato la resa dell’Italia e, dall’altro, il fatto che… la guerra continuava (!), fu, per il nostro martoriato Paese, una doppiezza senza precedenti. Un qualcosa che non si era mai visto nella storia delle guerre e degli eserciti. A conti fatti fu quello un atto di furbizia e di improvvisazione che costò la vita a migliaia di nostri soldati, lasciati in balia sia degli anglo-americani sia di quelli che, fino al giorno prima, erano stati i nostri alleati. Risultato: i tedeschi si sentirono pugnalati alla schiena e traditi nel pieno della pugna. Così, nel mentre il pavido re e la sua corte riparavano a Pescara, con una fuga frettolosa, per non cadere nelle mani degli uomini del fuhrer (e della loro ira), un intero popolo dovette subire, inerme, la rappresaglia nazista nel mentre il nostro esercito si ritrovò costretto a brancolare nel buio e nello sconforto, privo di direttive. Ancora una volta gli italiani avevano cambiato il partner che si erano scelti per iniziare la battaglia. Intere divisioni furono fatte prigioniere oppure passate per le armi come accadde alla Divisione Aqui che a Cefalonia fu trucidata dai nazisti. Una tragica testimonianza di quanto improvvida ed inadeguata fosse stata la dichiarazione di quell’armistizio e l’intenzione di continuare la guerra accanto agli ex nemici. Nei mesi che seguirono, i tedeschi liberarono Mussolini, tenuto prigioniero sul Gran Sasso, favorendo, nel Nord Italia, la nascita della Repubblica di Salò, dando così l’avvio ad una guerra civile. Con il Duce scelsero, infatti, di schierarsi molti giovani cresciuti nel mito della gloria italica e nell’immancabile “Vittoria” promessa dal fascismo. Altri scelsero di combattere per Salò perché semplicemente indignati per il tradimento che il re e Badoglio avevano decretato, come segno di coerenza ideale e di devozione alla Patria. Sull’altro versante, le brigate partigiane composte da fuoriusciti dell’Esercito e da anti fascisti, si organizzarono rifornite dagli Alleati e lo stesso fecero i reparti del Regio Esercito rimasti fedeli a Badoglio ed ai Savoia. Insomma: fu una tragedia nella tragedia, che vide scorrere molto sangue fraterno. Una pagina nera della storia italiana, edificata sia sulla follia di uno scontro bellico mal calcolato, sia sullo sbandamento morale e materiale subito da un intero popolo. L’8 settembre non fu solo il frutto di una guerra che era già perduta, l’opportunismo e la pavidità della monarchia sabauda che mollò il Duce per abbracciare i nuovi padroni del vapore, pensando in tal modo di salvare il trono e redimere la nazione. Fu anche l’apoteosi dell’italica vocazione ad essere dei voltagabbana, dei levantini che nel giro di qualche giorno rinnegarono il consenso dato per vent’anni ad un regime dittatoriale. Nel giro di poche ore, infatti, milioni di convinti fascisti che sfilavano impettiti innanzi al Duce acclamandone i discorsi autarchici e guerrafondai, si trasformarono in acerrimi antifascisti. Dismesso l’orbace e la camicia nera di ordinanza, gli italiani plaudirono festanti le truppe anglo americane liberatrici che inseguivano i nazisti in fuga verso il nord. Non furono, quelli, solo giorni tragici ma anche giorni vergognosi. Non fummo solo leoni ma anche sciacalli.

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