Dopo il risultato elettorale delle regionali nel Lazio ed in Lombardia, il quadro politico si è ulteriormente chiarito e consolidato, in favore della attuale compagine di governo. Meglio ancora è andata per il partito di Giorgia Meloni, circostanza, questa, che rende più salda ed autorevole la figura del primo presidente del Consiglio donna nella storia della Repubblica italiana. Altro elemento di stabilità viene dal fatto che a Palazzo Chigi sieda un politico che della politica, intesa come strumento di conoscenza e di esperienza, ha grande considerazione governando orgogliosamente in nome della stessa. L’intento è chiaro: porre fine sia agli esecutivi tecnici, sia alle eterogenee e traballanti maggioranze parlamentari. Insomma: sembrano essere tornati gli indispensabili punti di riferimento per orientare ed impostare un programma di largo respiro e di prospettiva futura. Non sembri cosa marginale questa condizione di agibilità e di chiarezza in una nazione che nella precedente legislatura aveva dovuto cambiare ben tre governi (così come già peraltro accaduto in quella precedente). La carica non santifica chi la ricopre ma certamente consegna un’aura di autorevolezza che permette, a chi ha le idee chiare, di poterle tradurre in atti anche nel medio lungo periodo. E’ questo il caso delle sempre più indispensabili riforme costituzionali, della modifica dell’assetto delle istituzioni e dell’ammodernamento dello Stato, dell’eliminazione dei percorsi farraginosi e pletorici per produrre le leggi nonché per ridurre il ruolo e la funzione di una burocrazia ridondante ed inefficiente. Avendo tempo, il processo riformatore potrà giungere a termine grazie alla sufficienza della maggioranza ed al comune sentire della medesima sulla natura e sulla forma dello Stato. Tuttavia, ancorché difficoltose, le riforme potrebbero non bastare se non porteranno con loro altri cambiamenti a corollario del processo innovatore. Interventi su giustizia, tasse, welfare e riduzione del debito pubblico appaiono infatti consustanziali ed indispensabili. A partire da quella pesante palla al piede che rallenta ed impedisce lo sviluppo economico chiamata “debito statale”. Giova ricordare, agli smemorati ed agli indifferenti, che nel dicembre del 2022 il debito delle amministrazioni pubbliche era pari a 2.762,5 miliardi, contro i 2.678,1 miliardi del precedente anno (150,3% del Pil). Stiamo parlando di oltre una volta e mezza l’intera ricchezza prodotta dal Paese. Questo almeno è quanto emerge dalla stime di Bankitalia. Tradotto in parole semplici significa che le Amministrazioni locali (pensiamo a quegli enormi centri di costo chiamate Regioni) continuano a produrre “voragini”, in uno con l’aumento degli interessi passivi che riconosciamo a quanti acquistano titoli di Stato. Questi ultimi ormai rappresentano la quarta voce della spesa statale, subito dopo pensioni, stipendi della P.A. e sanità, per un ammontare di circa cento miliardi di euro all’anno. Nel complesso quelle spese fisse e ricorrenti assorbono circa l’ottanta percento delle entrate statali rendendo il bilancio degno di essere consegnato alla prima sezione fallimentare di un tribunale. Condizioni quindi di bancarotta economica e finanziaria che lasciano spazio solo alla politica di piccolo cabotaggio. Ben lontani, dunque, dai vasti orizzonti riformatori. Una politica che, mutatis mutandis (cambiando le cose), non riesce ad affrontare e risolvere questo scenario pre riformatore. L’abitudine inveterata di governare utilizzando la leva della spesa a debito crescente, impegnando risorse economiche che non ci sono, ha caratterizzato l’agire di molti esecutivi, a prescindere dal loro colore politico e consistenza. Un discorso che irrita i governanti ed i parlamentari perché ne paralizza la vocazione all’assistenzialismo ed al clientelismo che alligna dietro quel salvacondotto che va sotto l’aulico e candido nome di “giustizia sociale”. Continuare a sentir parlare di distribuzione della ricchezza in una nazione ove il PIL non riesce a pareggiare il complessivo del debito statale, oltre che tragico, appare delinquenziale. Nella battaglia delle primarie per il Nazareno, la candidata alla segreteria del Pd Elly Schlein continua a fare largo uso di questi demagogici propositi come se nulla fosse accaduto finora. Il che è la prova provata di come il più grande partito della sinistra viva in una condizione fuori dal tempo e della ragion pratica. Politologia a parte, credo che si possa spiegare il successo della Meloni anche con questa chiave di lettura. Abbiamo bisogno di serietà e di obiettività e questo il contribuente lo capisce e lo vota, non sapendo che farsene delle allegre brigate di altruisti e dissipatori del proprio danaro.