Correvano gli anni Ottanta del secolo scorso e l’Italia viveva una fase di sviluppo e di relativo benessere. Il cosiddetto “ascensore sociale” funzionava regolarmente. Con questo termine, coniato da sociologi ed economisti, si descriveva la diffusa percezione che avevano i figli di essere diventati più ricchi dei loro nonni e dei loro padri e che questo dovesse poi riguardare anche i propri discendenti. Insomma lo spirito del capitalismo, nell’accezione teoretica e culturale, dispiegava tutta la sua potenzialità di allargare la base della ricchezza e di conseguenza la base stessa dei consumi che reggeva la produzione. Si avverava, così, la teoria dell’economista Jean-Baptiste Say: in un mercato di concorrenza la produzione dei beni è indotta dall’offerta e quest’ultima induce la domanda dei beni medesimi. Insomma l’economia tirava e si trascinava dietro tutta la società assetata di benessere. A sinistra il partito comunista guardava con malcelata contrarietà a questa situazione. L’agonia dei regimi marxisti, culminata col dissolvimento dell’Urss ed il crollo del muro di Berlino, faceva già presagire la vittoria del capitalismo (come dottrina economica e politica) sul collettivismo e lo statalismo. Ancora più livida e preconcetta era, in quegli anni, la posizione dei cattocomunisti, quel manipolo di democristiani e di indipendenti di sinistra che coltivavano, e tuttora coltivano, l’idea che il denaro sia lo sterco del diavolo, come i comunisti ritengono essere il ricavato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Tuttavia la vulgata maggioritaria era “meno Stato è più mercato”. Tesi, quest’ultima, sostenuta anche dal governo di centrosinistra guidato, allora, da un socialista atipico: un liberal mai affascinato dalle tesi marxiste. Il suo nome era Bettino Craxi, segretario del Psi. Un uomo miseramente bocciato dalle cronache dell’epoca, ovvero da una certa stampa e da taluni magistrati asserviti ideologicamente agli interessi della sinistra, come i fatti avrebbero dimostrato in seguito. La storia, infatti, ha chiarito episodi e circostanze di un processo fatto al politico ed al suo convinto riformismo, all’idea che l’uguaglianza e la giustizia non fossero sinonimi. Al concetto che gli ultimi erano da sostenere senza scadere nella prassi consolidata che occorresse contrastare decisamente la produzione di ricchezza ed il sistema liberale. Una tesi che ha alimentato in milioni di ignari cittadini, fuorviati dalle eclatanti e sommarie vicende giudiziarie, l’idea che Craxi fosse il “nemico numero uno” da perseguitare per favorire un regime socio economico basato sulla centralità dello Stato onnipotente, assistenziale e pauperistico. Insomma quel modus operandi che ha caratterizzato, in Italia, la lotta politica degli ultimi trent’anni, con il concorso determinante della macchina del fango, del sistema mediatico giudiziario e delle gogne. Un sistema nel quale il rancore sociale ed i pregiudizi verso chi eccelle hanno assunto, apoditticamente, il ruolo di buoni sentimenti e di giustizia giusta. Su questa falsità, che portò Bettino Craxi a morire in esilio (salvo essere poi parzialmente riabilitato), si è costruita un’era che ha eradicato e distrutto dalle fondamenta i partiti edificati su basi democratiche e partecipate. Craxi fu uomo che ebbe il coraggio di denunciare un diffuso sistema di finanziamento occulto dei movimenti politici, compresi quelli che sfruttarono il moralismo di facciata oppure sorsero in nome di questo sentimento, come quello di Antonio Di Pietro. Uscendo dal racconto storico della politica di quei tempi e dagli oscuri particolari, ancora non chiariti fino in fondo, ed entrando nella valutazione delle condizioni economiche e sociali di quei lontani tempi, non si può non averne nostalgia. Un giorno, in uno degli accesi dibattiti che animavano la vita democratica dello scudocrociato, ebbi modo di scontrarmi dialetticamente con un deputato, figlio di un ex potente ministro della Repubblica. Questi venne poi battuto nella votazione che ne seguì, prevalendo, in tal modo, la mia tesi. Il commento di un altro parlamentare fu lapidario e degno di un epitaffio politico: il figlio di un potente ministro soccombe innanzi ad un giovane dirigente che non possiede altro potere se non quello dell’eloquenza e della forza delle proprie idee. Vorrei poter verificare oggi se esista un partito nel quale quel giovane possa contestare e vincere democraticamente la sua sfida politica. Vorrei verificare se esista ancora quell’ascensore sociale che portava in alto i meritevoli ed i capaci. Vorrei verificare se la condizione dei padri sia peggiore di quella dei propri figli. Vorrei verificare se dalla nostra scuola escono persone erudite ed istruite come allora. Insomma, senza indulgere nella senile nostalgia dei tempi passati: vorrei poter salire su un ascensore politico e sociale in grado di viaggiare in salita per i miei figli ed i miei nipoti. Vorrei!