Per molti anni l’appellativo più appropriato per Leoluca Orlando Cascio, poteva essere quello preso in prestito da Ludovico Ariosto : l’Orlando furioso. Il politico siciliano, infatti, è stato sempre un agitato contestatore sia dentro che fuori della Democrazia Cristiana, partito ove ha militato negli anni giovanili, fino ad uscirne per manifesta incompatibilità con taluni esponenti dello scudo crociato. A suo dire quei maggiorenti erano in odore di mafia ovvero basavano il loro consenso elettorale sul clientelismo e sul favoreggiamento, diretto oppure indiretto, con la malavita organizzata. I principali bersagli del giovane politico furono, in primis, gli aderenti alla corrente andreottiana in Sicilia come Vito Ciancimino e Salvo Lima, congiuntamente ad altri uomini d’apparato di quella componente interna. Orlando frequentava la scuola politica dei gesuiti di Palermo che avevano in padre Ennio Pintacuda e Bartolomeo Sorge delle finissime e coltissime menti che ne indirizzarono la formazione giovanile allorquando tramontò la stagione del rinnovamento interno della DC, nata con l’elezione dell’onesto e mite Benigno Zaccagnini alla segreteria politica nazionale (e che era durata un quinquennio dal 1975 al 1980). All’interno della Balena Bianca riprese il potere la corrente Dorotea con l’elezione di Flaminio Piccoli. Con lui tornarono in auge gli epigoni del conservatorismo e del potere per il potere. Leoluca Orlando esce nel 1991 dal partito e fonda un movimento chiamato la Rete su basi progressiste e di contestazione dei vecchi partiti della prima Repubblica. Non a caso presidente del Consiglio era allora Giulio Andreotti ed a Palermo il potere andreottiano era all’apice del potere. Forte fu in quegli anni anche lo scontro con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga che polemizzava sulla famiglia Cascio, in odore di mafia, dalla quale proveniva Orlando che aveva indossato, con un manipolo di parlamentari quasi tutti nuovi sulla scena politica, la veste di portatori di una radicale contestazione etica e metodologica della prassi politica nazionale. I successivi eventi di Tangentopoli mandarono in soffitta la vecchia classe politica. Mariotto Segni vinse il referendum per imporre la nuova legge elettorale di tipo maggioritario negli enti locali. Confluito poi nell’alleanza progressista la Rete si sciolse ma non mancò mai la polemica verso coloro che avevano rappresentato l’ancien regime. Altro punto polemico fu la continua denuncia della collusione politica con gli apparati mafiosi nell’isola e l’appiattimento verso le ragioni e le azioni dei magistrati della procura di Palermo che cominciavano ad imbastire le indagini che si sono trascinate fino ai nostri giorni e che poi sono terminate con un nulla di fatto, per i principali imputati tranne che per Vito Ciancimino. Come parlamentare del Pd, Orlando contestò anche Giovanni Falcone nominato alla carica di direttore generale degli Affari penali presso il Ministero di Giustizia e il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo morto suicida e poi scagionato da ogni accusa. Insomma, costui vestì i panni dell’inquisitore che si batteva contro le collusioni politiche con le organizzazioni mafiose, anche prendendo memorabili cantonate. Passò con il movimento di Antonio Di Pietro, l’Italia dei Valori, offuscato nella sua figura di protagonista dal più noto magistrato del pool mani pulite. Nel 1993 si candidò per la prima volta a sindaco di Palermo vincendo con un voto plebiscitario (del 75%) che pose molti interrogativi, uno dei quali era quello di chiedersi per chi avessero votato i clienti ed i gruppi di potere del capoluogo siciliano. Si ricandidò poi nel 2012 e fu rieletto nella tornata successiva a Palazzo delle Aquile, ove non si distinse mai per particolare capacità amministrativa, così che Palermo ha continuato a soffrire degli endemici mali di sempre. Ecco che in queste ore viene inquisito dai magistrati tanto idolatrati, per falso in bilancio. L’ipotese è che taroccando i documenti contabili del Comune capoluogo di regione, Orlando abbia evitato il dissesto finanziario dell’ente. Il buco accertato finora dagli inquirenti è di 80 milioni di euro a fronte di servizi scadenti, uffici pletorici ed inefficienti, clientele elettorali che ne avrebbero favorito la rielezione. Come sempre in questi casi l’indagato si dichiara estraneo ed ignaro dei fatti nonché fiducioso nelle indagini dei togati. Egli ha diritto, come tutti, al beneficio della presunzione di innocenza ed a non essere messo alla gogna mediatica giudiziaria. Un diritto di civiltà giudica che non è spettato a tanti politici siciliani, aggrediti dalla loquela Orlandiana seppur usciti, dopo un decennio, innocenti. Tuttavia il destino cinico e baro farà assaggiare al vecchio e bolso Torquemada palermitano le ansie ed i patemi di chi subisce processi sommari. In Sicilia si usa dire che chi è accusato e vilipeso dai pregiudizi, sia un “uomo Mascariato”. Ed almeno questa pena per Leoluca Orlando sembra più che meritata.