Luigi De Crescenzo: “Canto la mia idea di musica nel segno di mio zio Eduardo”

Intervista a Luigi De Crescenzo: fuori il singolo ‘Juoc e mare’

NAPOLI – Si intitola “Juoc e mare” il nuovo brano del cantautore napoletano Luigi De Crescenzo. L’artista, classe ‘89, muove i primi passi verso la musica fin da piccolo, spinto dalla propensione artistica ereditata dalla famiglia, in particolare dallo zio Eduardo De Crescenzo, cantautore di fama nazionale. Un mito, un punto di riferimento ma anche una sorta di ‘bollo’ che Luigi oggi prova a staccarsi di dosso percorrendo una strada tutta sua, indipendente e nuova. La somiglianza della sua voce con quella del famoso zio è innegabile e sorprendente, ma lo stile e le intenzioni non sono assolutamente quelle di un’imitazione. Luigi De Crescenzo racconta a ‘Cronache’ del suo progetto musicale e della strada finora percorsa.

Luigi, un brano appena pubblicato e un disco in lavorazione pronto a uscire. Parlaci di ‘Juoc e mare’: perché questo titolo?
Come tutti i napoletani, per me il mare è un luogo che amo definire ‘sacro’, dove poter ritrovare fino in fondo noi stessi. Questo è almeno quello che succede a me. Ma non parlo solo da un punto di vista ‘romantico’, anzi: il mare è per me quel posto in cui riesci a ritrovare aria. Nel brano, però, affronto anche l’aspetto ‘pericoloso’ dell’elemento mare: con lui bisogna essere sempre prudenti, perché se non sai leggerlo bene, se sbagli l’approccio, il mare può farti male.

Un po’ una metafora del messaggio che comunichi nel brano.
Esatto: ci costruiamo delle congetture che alla fin fine risultano posticce, e lo facciamo solo per complicarci la vita, che è qualcosa di splendido e meraviglioso, eppure facciamo di tutto per non renderla tale. Lo stesso può capitare con il mare, che ci conforta ma nasconde le sue insidie. Se non gli porti rispetto può rappresentare un pericolo.

‘Juoc e mare’ è scritta e cantata interamente in napoletano. Come mai questa scelta?
Rispondo citando quella che è la strofa madre: “Il mare confonn e t’affonn”. Questa frase ha senso solo se detta in napoletano: se si traduce perde di forza. Inoltre, ho scelto di cantarla nel mio dialetto perché sentivo più intimo e vicino il rapporto con il mare tramite questa forma di linguaggio. La scelta del napoletano potrebbe sembrare un limite, ma credo che non lo sia. Oltre al fatto che ci sono molti fruitori di questa lingua, sono sicuro che solo in dialetto si possano esprimere certi concetti. Tramite l’intenzionalità e il modo in cui li canto, posso arrivare in modo più efficace a chi mi ascolta. Per me è quindi un punto di forza, anche perché è una lingua molto musicale.

Parliamo dell’album: a che punto è?
Sta per uscire, ma non ho ancora deciso una data. Contiene brani sia in italiano che in napoletano. Il disco è pronto ma non è ancora stato pubblicato per una scelta commerciale. La speranza è che la situazione ‘fuori’ cambi, che si riprenda a suonare dal vivo al più presto. In caso contrario, farò uscire un altro brano e poi partirò con il cd. La cosa migliore per lanciare un album ovviamente è quella di suonarlo dal vivo, e non solo farlo ascoltare su una piattaforma digitale.

Si tratta del tuo primo album da solista: quali tematiche hai sviluppato?
Nelle mie canzoni parlo della paura del non riuscire a vivere l’oggi, presi come siamo dalla preoccupazione del domani. Un disco al quale ho lavorato con Fabio Malfi alla batteria, Luca Muneretto al basso, Davide Esposito in arte ‘Cicala’ alle chitarre, mia sorella Viviana De Crescenzo alle seconde voci, Riccardo Parravicini al mixaggio e Giovanni Versari al mastering. Poco prima dell’inizio della zona rossa ero a Napoli per un live preview in studio, eravamo tutti contentissimi anche solo di suonare un singolo brano, ma poi è saltato tutto da un giorno all’altro. Ora mi muovo su Instagram per suonare, anche se solo in diretta.

Parliamo di tuo zio Eduardo De Crescenzo: cosa significa essere cresciuto con un mito della musica italiana come lui?
E’ stato il mio primo eroe: conosco a memoria i suoi testi, a casa mia sentivamo solo lui e Pino Daniele! Una volta cresciuto mi sono messo in discussione: ho deciso di andare oltre, appunto, ‘il mito’ per comprenderne quali potevano essere i suoi limiti, anche per uscire da quella bolla musicale in cui sono cresciuto. Non è stato facile: parlo di mio zio, la sua voce è una cosa sensazionale ed un enorme punto di riferimento per me, ma ho dovuto, per non far uscire fuori un’imitazione, cosa che sarebbe stata più semplice per me. Avevo bisogno di cercare una forma mia di cantato, evitando una riproduzione di quel che potevo aver preso da piccolo.

Che significa portare un cognome così ‘pesante’?
Non è facile, soprattutto a Napoli. All’inizio, quando suonavo con la mia iniziale band, riuscivo a “confondermi”. Anche se capitava spesso che mi avvicinassero delle persone per dirmi che somigliavo a mio zio o che provavo ad imitarlo. Il mio mentore è lui, ho studiato osservando lui. È ovvio che non ho la sua voce, ma provo ad offrire altro al pubblico. Non metto però mai in discussione da dove vengo: prima cercavo di non far sapere chi era mio zio, ma oggi sono più sereno a riguardo. Mi sarebbe convenuto anche mettere su una tribute band: me l’hanno proposto, ma ho detto di no.

Quando tuo zio Eduardo ha saputo che volevi diventare un musicista come ha reagito? Ti ha dato qualche consiglio?
Mi ha detto di pensarci bene, perché poteva sembrare un mondo facile ma in realtà non lo è affatto. Lui è un tipo schivo, non gli piace stare al centro della scena. Ed io, come lui, vorrei riuscire a fare musica non stando troppo al centro, ma ‘defilato’. Se si è troppo osservati diventa tutto più difficile.

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