M5S, l’addio di Di Maio è una svolta obbligata ma sarà dura trovare un nuovo leader

Ora si apre la stagione delle riflessioni, delle candidature per la leadership, del confronto interno

Foto Roberto Monaldo / LaPresse in foto Luigi Di Maio

ROMA – E’ difficile stabilire se adesso a comandare sarà davvero Vito Crimi, il reggente scelto (da statuto) per pilotare il Movimento fino agli Stati Generali di metà marzo. Lo dirà il tempo, come sarà il tempo a determinare se tra due mesi toccherà sempre a lui la leadership del partito (sì, partito) oppure tornerà a lavorare nell’ombra come spesso è accaduto. A naso, che sia Crimi, o Di Battista, o Patuanelli, o Fico, o Taverna o chiunque, il nuovo capo politico avrà un compito delicatissimo: ricompattare lo spogliatoio, armonizzare le diverse anime interne e – soprattutto – arginare l’emorragia di voti.

Il post Di Maio

Di sicuro non detta più legge Luigi Di Maio dopo 27 mesi degni del miglior freeclimber, da giovane signor nessuno a vicepremier e ministro dello Sviluppo economico e poi ancora ministro degli Esteri, con il ‘fil rouge’ della guida assoluta, e a tratti autoritaria, pentastellata. Il passo indietro non è un passo d’addio (“Il mio percorso nel Movimento non finisce qui”), ma certamente è un ridimensionamento imposto dai meccanismi di sopravvivenza. Per dirla con l’onorevole Emilio Carelli, è un “passo avanti” per il Movimento. Touché.

L’analisi della spaccatura nel M5S

I fiancheggiatori di Di Maio lo descrivono provato e arrabbiato, vittima di una overdose di ‘padreternismo’ e anche di qualche rimorso: già, se avesse mantenuto un profilo meno snobistico, anche sul versante comunicazionale, magari sarebbe andata diversamente. O magari no. Comunque era chiaro anche ai sassi che così, ponendosi così, sopravvivendo così, il Movimento avrebbe continuato a perdere pezzi e consensi fino alla scomparsa. La collegialità, evocata da tanti, in primis dal ministro Federico D’Incà, è una linea di condotta diversa, anzi opposta rispetto alla gerenza attuale, dell’uno-e-trino Di Maio. Non un governo di tutti, certo, ma nemmeno una sorta di oligarchia. Servirà? Lo vedremo.

Un’era che si chiude

Gli americani lo chiamamo ‘turning point’, cioè il punto di svolta. Di Maio l’ha definita “era che si chiude” e l’ha avvolta nel domopack plastificato e generalista della “rifondazione”. Va da sè che il M5S sta cambiando pelle perché non è più la stagione dei ‘vaffa’, perché la morte di Gianroberto Casaleggio ha aperto un baratro, perché il distacco forse inevitabile di Beppe Grillo ne ha scavato un altro, perché chi sta al governo e non più all’opposizione di piazza è sempre al centro delle attenzioni. E delle critiche. Fra traditi e traditori, tra antagonisti e finti amici, tra ortodossi e rivoltosi, col dissenso a fior di pelle, l’aria era diventata irrespirabile. Già, i “peggiori nemici sono all’interno”, che hanno “tradito i valori per visibilità”. Non che adesso il Movimento sia un centro di benessere talassoterapico, però è chiaro che ha prevalso la voglia di mutare rotta per riallinearsi alla propria natura.

La stagione delle riflessioni

Ora si apre la stagione delle riflessioni, delle candidature per la leadership, del confronto interno. Una ‘cosa’ molto (più) simile al flusso di coscienza avvenuto nel Pd, verso il quale Grillo vorrebbe che si inclinasse il Movimento. Crimi dovrà gestire il post Emilia-Romagna e il post Calabria, oltre ad eventuali assestamenti di governo. A qualcun altro verosimilmente, toccherà invece l’operazione rilancio. Ma non più a Di Maio.

(LaPresse/di Vittorio Oreggia)

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