Mala tempora

Mala tempora currunt et peiora parantur. Così recita un brocardo latino quando occorre lamentarsi dei tempi che viviamo e di quelli che si preparano in futuro. Lo si potrebbe usare come sintesi dell’era politica che viviamo e di quella che si appresta al termine della campagna elettorale. L’epoca attuale non è ordinaria e nemmeno tranquilla per chi deve, o meglio ha dovuto, amministrare le cose del governo della Nazione: un periodo tortuoso e difficile sotto molto aspetti che ha saldato due crisi economiche, quelle affrontate alla meno peggio dall’avvocato del popolo Giuseppe Conte e dal superbanchiere Mario Draghi. Durante la prima crisi economica, quella che ha preceduto la pandemia da Covid, abbiamo avuto bisogno della Banca Centrale Europea, in mano allo stesso Draghi, per sostenere il nostro debito ed al calo del prodotto interno lordo oltre al declassamento del rating del debito italiano. Argomento, quest’ultimo, del tutto accantonato dalla discussione politica odierna, che funge da sottostima dell’effetto del debito pubblico italiano giunto alla iperbolica cifra di 2,7 milioni di miliardi di euro (equivalente al 160 %del nostro Pil, ovvero della produzione di beni e di ricchezza). Un debito coperto con l’emissione di titoli di Stato che le principali agenzie di valutazione ( rating ) hanno classificato prossimi alla carta straccia. Senza la BCE a sostenere questi acquisti, sostenendo anche le nostre banche che comprano i titoli italiani, non avremmo avuto di che pagare pensioni, stipendi e sanità voci, queste ultime, che costituisco oltre il sessanta per cento della spesa fissa e ricorrente alla quale il governo deve fare fronte. Insomma senza la vendita dei titoli di Stato, nelle apposite aste finanziarie, saremmo più che falliti. Se a queste spese aggiungiamo quasi novanta miliardi di interessi passivi sul debito già contratto superiamo, di gran lunga, la soglia per portare i libri in tribunale come una qualunque azienda fallita. E tuttavia in questa campagna elettorale è tutto un rincorrersi di proposte per altre spese improduttive, tra reddito di cittadinanza, minimi di pensioni da aumentare, salari minimi e sussidi. La crisi pandemica ha certamente acuito la situazione sia del Pil che del debito pubblico e lo stesso Draghi ha sfornato decreti legge a ripetizione per puntellare le categorie produttive danneggiate dal lockdown. Quelle stesse che oggi reclamano ristori per la tempesta energetica ed il caro bollette conseguente. Una situazione di crisi che non conosce soluzioni di continuità da ben due lustri, che viene affrontata non con rimedi strutturali ma con continue elargizioni una tantum. Innanzi a siffatta situazione ci apprestiamo, secondo i sondaggi, a mandare a casa il più autorevole esperto economico finanziario italiano, per sostituirlo con una gentile signora che cavalca l’onda populista come hanno fatto prima di lei i Grillini, proponendo una versione mendace dello stato delle cose e rappresentando il ceto politico e le istituzioni come un luogo per malfattori ed affamatori del popolo. E poi seguita l’onda di Salvini e della sua campagna impostata su migranti e sicurezza, ovvero continuando a lanciare appelli alla pancia dell’elettorato. Oggi tocca ai post missini cavalcare l’onda dei consensi e l’eterna speranza che si possa governare utilizzando la leva della spesa pubblica a debito crescente. Una siffatta previsione, aggiunge interrogativi sui tempi futuri per varie ragioni. Tra queste l’impreparazione, l’improvvisazione e l’inesperienza di Giorgia Meloni, sul piano economico e gestionale, innanzi alla pessima condizione del bilancio dello Stato, oltre che una maggioranza friabile per antagonismo interno tra la stessa leader di Fdi, Salvini e Berlusconi, che potrebbero smarcarsi nel dopo elezioni, infine un ceto politico che in gran parte proviene dalla Destra storica e dalle ambiguità di visione dello Stato. E’ pur vero che a Fiuggi il Msi ebbe una palingenesi adottando l’Interclassismo come dottrina socio economica, ma al contempo è parimenti vero che la visione dello Stato di quegli uomini resta centralista e le proposte di programma populiste. Pensare ad una riforma costituzionale senza un,’dea di ammodernamento dello Stato e delle Istituzioni politiche ed economiche, lontano dai principi liberali e dal moderatismo delle azioni, è molto difficile e si esaurirà nel reclamare l’elezione diretta del Capo dello Stato che resta un semplice tassello della più ampia revisione da farsi. E’ ormai chiaro a tutti che senza ammodernare ed attualizzare la legge di tutte le leggi, la Costituzione, la crisi sarà di sistema e come tale perdurante. In una azienda piena di debiti non occorrono pannicelli caldi oppure pezze a colore. In un sistema maggioritario, condizione di base per riformare, ove comandano le ali estreme e deperisce il resto, si va solo incontro alla mala tempora.

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