Miserie dello statalismo

Su queste stesse colonne e nell’aula del Senato, a Palazzo Madama, qualche anno fa, denunciai uno dei tanti scempi dello statalismo: lo sperpero del denaro dei contribuenti. Parlai delle “vicende” dell’acciaieria Ilva di Taranto, che facevano peraltro coppia con l’analoga vicenda del polo siderurgico di Terni, e di come fosse stato consentito agli imprenditori siderurgici di privatizzare gli utili e caricare sulle spalle dello Stato le perdite di gestione. Si badi bene che la storia che ci accingiamo a ricordare e rinnovare non è un’eccezione, ma uno dei tantissimi esempi di come lo Stato, nelle vesti di imprenditore, può fare scempio del denaro dei cittadini, consentendo a manager “rapaci” di sfruttare la mala gestione pubblica. Si tratta di un’impostazione, un atteggiamento tipico delle economie derivanti da aziende a gestione statale, laddove mancando la condizione del rischio d’impresa e l’interesse specifico dell’imprenditore, tutto viene organizzato non in ragione della funzionalità aziendale e della resa economica, ma della convenienza politico clientelare di quanti detengono il potere di operare scelte e decisioni. In questo modo, lo statalismo rompe il nesso etico tra ricompensa e merito lasciando ai partiti – che detengono il potere di nominare gli assetti direzionali – l’azione di sperpero delle risorse. Alla politica interessa, infatti, la resa elettorale e poco importa che la produttività, l’efficienza ed il gradimento degli utenti siano scarsi. Gli statalisti menano vanto del fatto che le aziende statali non abbiano finalità di lucro, ovvero una superiore etica dei fini sociali, tuttavia tacciono su quelle perdite di impresa che saranno accollate, in seguito, al pubblico erario e ai cittadini sotto forma di tasse. I sindacati completano l’opera difendendo ad oltranza l’andazzo, schierandosi a prescindere in difesa dei lavoratori e delle ampie sacche di inefficienza produttiva. Tanto, paga Pantalone e tutto fila liscio! La commedia ha termine quando le perdite accumulate raggiungono, con il trascorrere degli anni, cifre tanto ragguardevoli da non poter più essere sostenute oppure tenute nascoste. Ed è questo punto che lo Stato dismette, a prezzi stracciati, le aziende decotte agli imprenditori privati, il cui unico vincolo sarà quello di mantenere i livelli occupazionali in uno con i favoritismi consolidatisi nel tempo. Inutile dire che l’aziende di turno viene così deprezzata e quello costato 100 allo Stato sarà venduto a meno della metà. L’andazzo è di ampia applicazione e trova origine nella demagogia d’impostazione introdotta dai governi a partecipazione socialista, ovvero di centrosinistra, che vollero nazionalizzare la maggior parte dell’apparato produttivo italiano. Un apparato gestito da un carrozzone politicizzato chiamato Iri ai cui vertici i partiti collocavano i propri amici oppure i politici trombati alle elezioni. Un apposito ministero, quelle delle Partecipazioni statali, gestiva oltre 10mila aziende di proprietà oppure partecipate dallo Stato, accumulando miliardi e miliardi di debito pubblico. Ma veniamo ai nostri giorni nei quali si apprende dalla stampa che le ex Acciaierie di Taranto, svendute alla famiglia Riva, poi riacquistate dallo Stato e infine rivendute agli indiani di Arcelor, non riceveranno i finanziamenti previsti per la bonifica delle aree inquinate. I soldi, poco meno di tre miliardi di euro, provenivano dal tesoretto sequestrato ai Riva, dopo il fallimento dell’azienda. Piccola parentesi: giova precisare che i Riva, in poco meno di un ventennio, hanno dichiarato guadagni per più di 10 miliardi di euro pur avendo pagato l’azienda meno di 5 miliardi di vecchie lire. Ma c’è di più! Il governo aveva assunto l’onere della bonifica delle aree e la messa in funzione di due altiforni (questi ultimi con una spesa di oltre un miliardo di euro) accollandosi un’ulteriore spesa, cosa che ha puntualmente fatto. Tutto pur di mantenere aperta l’azienda (sottoposta – lo ricordiamo – a sequestro per danno ambientale) e garantire la salvaguardia dei relativi livelli occupazionali. Con un colpo di mano nel decreto milleproroghe, però, il governo ed il ministero dell’Ambiente (oggi della Transizione ecologica) hanno deciso di smistare i soldi sequestrati ai Riva non più per bonificare le aree inquinate quanto per il rilancio produttivo del polo industriale. In sintesi, i soldi andranno all’azienda indiana che poi li utilizzerà per rendere più efficiente la fabbrica e i propri guadagni. Un gioco di prestigio che si aggiunge alle scempiaggini precedenti procurando inevitabilmente nuovi danni all’erario, che dovrà comunque provvedere alle bonifiche di tasca propria. Un evento che avevamo prefigurato, come testimoniano gli atti parlamentari, nella generale indifferenza. Non c’è da meravigliarsi che le miserie dello statalismo si ripresentino: i governi cambiano segno politico ma la politica cripto socialista degli sperperi resta la stessa.

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