Furto, riciclaggio, ricettazione, accesso abusivo a sistemi telematici e violazione del diritto d’autore. Cinque ipotesi di reato che lascerebbero intendere chissà quale colpo da film. In realtà parliamo del sequestro, da parte della Guardia di Finanza nelle scorse ore, di 17 canali Telegram (il fratello libertino di WhatsApp, per chi non lo conoscesse) in cui venivano diffusi gratuitamente giornali e riviste. Con un po’ di ritardo (e sotto le pressioni della FIEG) si apre così un nuovo capitolo della lotta alla pirateria informatica, dopo che l’ultima operazione notabile contro il pezzotto ha aperto un nuovo scenario: la possibilità di iscrivere al registro degli indagati anche i fruitori del servizio.
Questa guerra, però, gli investigatori italiani si apprestano a combatterla con lance spuntate e scudi di risulta. Il lungo elenco di ipotesi di reato di cui sopra sono un esempio di ennesimo tentativo di ricondurre a fattispecie già note comportamenti illeciti che non hanno ancora un nome nel codice penale italiano.
Bisogna fare un’opportuna premessa: il nostro codice penale è detto codice Rocco perché il proponente era Alfredo Rocco, del Partito Nazionale Fascista. Era il ’30 dello scorso secolo. Da allora, da più parti si sono sollevate autorevoli voci che hanno chiesto una profonda revisione strutturale, un codice ex-novo. Il Rocco è stato integrato, ribaltato, modificato. Alcune espressioni cassate, altre introdotte (ad esempio lo stalking). Ma mai riscritto da zero. Ora che la macchina digitale corre così veloce che l’umanità stenta a starle dietro, figuriamoci se possiamo ritenere utile allo scopo di sanzionare i nuovi reati un codice pensato quando nelle case dei più fortunati c’era al massimo una radio.
Qualche riforma della Giustizia in questi anni c’è stata; il più delle volte, dietro specifici input di natura politica. Ma mai una totale revisione del codice penale. Con conseguenze imbarazzanti: si pensi al reato di diffamazione in cui il mezzo web è semplicemente equiparato al mezzo stampa. Come dire che Facebook e Cronache di Napoli siano la stessa cosa. Potrebbe addirittura far scuola la legge c.d. contro il cyberbullismo. Il portale di settore Diritto.it, con i toni pacati che solo chi sa far parlare la legge al suo posto possiede, la smonta semplicemente alla lettura della definizione di cyberbullismo stesso, etichettandola come disomogenea, in quanto “sovrappone condotte di fatto (pressioni, aggressioni, ricatto, furto d’identità) a condotte normative (molestia, diffamazione, trattamento illecito di dati personali) e illogica nella parte in cui oppone alla generica diffusione online di qualsiasi tipo di contenuto la specificità dello scopo perseguito, incomprensibilmente circoscritto alla sola emarginazione sociale di un minore o di un gruppo di minori”.
Torniamo quindi al solito, stringente tema: ma esattamente, che tipo di classe dirigente stiamo eleggendo da svariate elezioni governative a questa parte? Evidentemente, una classe non esattamente brillante per competenze acquisite (e che in emergenza, tanto per fare un esempio, è costretta a far man bassa di consulenti esterni – si veda l’osservatorio sulle fake-news). E chi ne fa le spese, chiaramente, siamo noi.
Ad ogni caso in cui un magistrato è costretto a fare le piroette per inquadrare la tipologia di reato su cui indagare o a cui chiedere il rinvio a giudizio, questa impellenza ritorna in tutta la sua urgenza. Non si tratta solo di sanzionare – giustamente – chi sbaglia in maniera inequivocabile. Si tratta di evitare di imbastire processi stiracchiati per perseguire reati difficili da dimostrare nella loro pienezza. Con conseguente rischio di spreco di denaro pubblico per probabili nulla di fatto.