Niente trucchi col denaro del popolo

C’è ancora chi si interroga sulle cause politiche, economiche, sociali, che hanno determinato il clamoroso risultato elettorale delle ultime politiche. Per quanto largamente previsto, sia dai sondaggisti sia dalle diffuse opinioni che si potevano reperire ovunque in giro, la portata degli esiti determinatisi in favore del Movimento Cinque Stelle è stata di proporzioni del tutto inaspettate. Al di là dei complessi esercizi retorici, cui la vicenda comunque si presta, credo che buona parte del risultato ottenuto dai grillini, eclatante soprattutto al Meridione, risieda nella diffusa aspettativa del reddito di cittadinanza, una specie di “sussidio generalizzato” che avrebbe dovuto alleviare il difficile momento delle famiglie italiane nella perdurante crisi economica.

Accompagnava questa aspettativa assistenziale la diffusa adesione alle semplicistiche tesi economiche pentastellate, che sarebbe bastato tagliare i privilegi della casta politica e burocratica per reperire facilmente il denaro occorrente. Orbene, dare risposte semplici a domande complesse, è caratteristica peculiare del qualunquismo in politica. E la semplicistica (e mendace) storia di poter reperire in tal modo i fondi necessari per elargire il reddito di cittadinanza, può in tal senso, considerarsi senz’altro un esempio di scuola.

Tuttavia, le polemiche politiche di questi giorni dimostrano che non è semplice recuperare il denaro occorrente, ancorché da mesi la grancassa pubblicitaria del governo batta proprio su questo tasto. Altrettanto complessa ed aleatoria è la possibilità di procedere al taglio delle imposte, con l’introduzione di aliquote semplificate e ridotte. Anche in quest’ultimo caso ci troviamo, infatti, al cospetto di un mezzo miracolo economico, almeno nel breve periodo.

A fronte di una diminuzione delle aliquote, quindi delle imposte, è difficile immaginare un aumento del gettito in entrata, stante anche l’enorme dimensione dell’erosione e della perdurante evasione fiscale. In questo clima si imbastisce la lotta che i grillini ed i leghisti dichiarano al depositario dei conti pubblici, il ministro delle Economia Giovanni Tria. Una lotta senza quartiere che non potendo andare oltre, per il sostegno che l’inquilino di via XX Settembre riceve dal Capo dello Stato, si sposta su obiettivi collaterali quali i funzionari del Ministero stesso, rei di non assecondare i propositi dell’esecutivo giallo-verde di dispensare denaro a debito statale crescente. Un maggior debito pubblico che incrementi i già cospicui interessi passivi che gravano sul bilancio statale fino ad esserne diventati la quarta voce di spesa, dopo pensioni, stipendi e sanità.

Le minacce telefoniche di Rocco Casalino al Ragioniere Generale ed ai funzionari del MEF di adeguarsi alle esigenze della politica politicante, rappresentano un pessimo esempio, una tracotante dimostrazione di come si voglia governare a prescindere da tutto, il contesto economico pregresso. Una linea di avventura che potremmo pagare cara sui mercati internazionali allorquando vendiamo titoli di Stato per finanziare la spesa corrente. Per coloro che gridavano “onestà, onestà” non mi pare che minacciare sia un atteggiamento confacente con gli sbandierati propositi di moralizzazione. Vorrei chiudere con un aneddoto storico. La Ragioneria generale è il cuore dello Stato, il guardiano dei conti pubblici nell’interesse dei cittadini. Si tratta di una struttura che fu frutto di una riforma varata nel 1923 dall’allora ministro delle Finanze Alberto De Stefani, il quale attuò un disegno lungamente maturato, fin dai primi anni dopo l’Unità: dotare il Paese di un controllore dei conti, mettendo la Ragioneria Generale al di sopra di quelle centrali e periferiche.

La Ragioneria generale divenne così importante e rispettata che Vitantonio De Bellis, che fu titolare di quella carica dal 1919 al 1932, pare fosse l’unico che osasse dire di no al duce. Quest’ultimo, in una lettera a De Stefani, scrisse: «la gente pensa che al di sopra di me e di lei, vi sia un misterioso dittatore, Vitantonio De Bellis». De Stefani, a sua volta, disse di De Bellis: «possiede l’intransigenza di un domenicano, odiato da tutti per l’inflessibilità nel difendere il denaro del popolo».

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