Il ventesimo secolo, detto anche “secolo breve”, perché si ritiene sia finito con la caduta del Muro di Berlino, il 18 novembre del 1989, fu caratterizzato dalla preminenza dello scontro tra varie ideologie politiche e dalle tragedie che ne conseguirono: due guerre mondiali, colpi di Stato, distruzione di vasti e centenari imperi, conflitti e violenze alimentate dalle contrapposizioni di diverse dottrine politiche poi sfociate in sciagurate dittature. Se a questi eventi si aggiungono fatti come le rivoluzioni interne ai sistemi politici, come quella pacifica e culturale, che nel maggio del 1968 dilagò in tutta Europa, quella ben più tragica della rivoluzione maoista in Cina, ove furono soppressi milioni di dissenzienti, definiti “contro rivoluzionari”, alla pari quelle delle purghe staliniste e della dittatura cilena di Pinochet e dei generali in Argentina, ecco che ci accorgiamo che in quegli anni scorsero fiumi di sangue in ragione delle varie passioni ideologiche e politiche. Precursori di quelle sciagure furono, appunto, la forza del fideismo politico e l’ottusità di immaginare quelle ideologie come le uniche in grado di apportare ai popoli pace e prosperità. Insomma sulla base di quelle idee, elevate a dogmi di fede, si organizzarono modelli socio economici di Stati che non ebbero alternative. Una siffatta cecità, derivante dal fideismo politico indiscusso ed indiscutibile perché basato su elementi indefettibili, non poteva che portare a stilemi sociali liberticidi ed oppressivi, nei quali ogni dissenso ed ogni rilievo critico finiva per essere necessariamente considerato eretico e lesivo delle progressive e magnifiche sorti della nazione e dunque, proprio per questo, soffocato materialmente. Se quindi il “secolo breve” fu costellato da guerre e rivoluzioni che provocarono la morte di oltre un centinaio di milioni di persone, lo si dovette al portato ideologico violento che certa politica induceva e determinava. Di converso, furono le ideologie liberali e libertarie, le società aperte al dissenso ed alla tolleranza, a creare il fronte che si oppose alle società massificate ed imprigionate dai dogmi assoluti. Quindi la passione politica alimentata da sentimenti e valori di segno politico diverso da quelle tiranniche poté ben fronteggiare ed opporsi ai regimi illiberali riducendone la ferocia, l’egemonia e la durata. Tutto ciò rende evidente che non è la politica ad essere nemica in senso assoluto delle libertà e del progresso sociale, ma casomai taluni valori e presupposti che possono alimentarla. Se ne deduce che senza passione politica e senza la diffusione dei principii di libertà e di quelli inerenti i diritti di cittadinanza dei singoli individui, i regimi dittatoriali sarebbero rimasti là dove, con la forza, si erano imposti. Abbiamo, quindi, ancora bisogno sia dei valori che della tecnica politica, ovvero di quella serie di azioni che consentono il governo del popolo di realizzare le buone opere ed alle istituzioni democratiche di poter funzionare. Esiste ancora nel sentimento collettivo la consapevolezza dell’indispensabilità della politica per garantire non solo la pace ed il benessere sociale quanto la civiltà tra i popoli e le nazioni? Esiste ancora la spinta propulsiva di un credo che determini, nell’animo umano, la partecipazione ad edificare il bene comune? Un noto politologo innanzi a tali quesiti ha intelligentemente argomentato che la decadenza della passione politica dipenda dai profondi mutamenti sociali, dal cambiamento delle domande che emergono dalla società. La domanda di benessere collettivo si è trasformata in domanda di bene individuale, ai bisogni si sono sostituiti i diritti. Diritti che sempre in maggior numero tutti reclamano come pretesa di veder trasformate in regole generali anche le proprie egoistiche esigenze personali. Il tutto garantito da quella politica peraltro tanto esecrata ed abbandonata, come se quegli stessi diritti potessero e dovessero realizzarsi a prescindere dalle scelte e dalla partecipazione alla politica stessa. Una pretesa paradossale come quella di un malato che non si fida dei sanitari e delle medicine, che non collabora come gli viene richiesto dal curante e che poi però pretenda lo stesso di essere guarito! Se un modo di pensare di tal fatta si diffonde attraverso la rete divenendo critica qualunquistica costante alla politica, in uno con la richiesta, a chi la fa, di dover essere depositario di speciali talenti (peraltro raramente reperibili tra i richiedenti) e “virtù” siamo innanzi all’assurdo. Virtù come l’assoluta moralità, la poliedrica capacità, l’esperienza sul campo unitamente alla continua, invocata richiesta di rinnovamento del ceto politico, il risultato sarà quello di veder ulteriormente divaricata la forbice tra governo e governati. E la cosiddetta società civile, quella perennemente oltre l’impegno personale e solennemente bugiarda, cosa fa? Resta inoperosa ed assente! Molti gli italioti che al posto di una passione ideale coltivano interessi personali e clientelari e pretendono da chi li rappresenta la perfezione. Da tutto questo la miseria politica ed il menefreghismo imperante.