Pianeta influencer, sindacato e pregiudizi

Mafalda De Simone è una ragazza giovane, fresca e vitale. Su Instagram conta oltre 170mila follower e ha trasformato questo discreto seguito in un business. Fa quindi l’influencer. Ed è un lavoro, ossia “un’attività produttiva, che implica la messa in atto di conoscenze rigorose e metodiche, intellettuali e/o manuali, per produrre e dispensare beni e servizi in cambio di compenso, monetario o meno” (vi sto citando la definizione di Wikipedia). Sul lavoro, secondo la nostra Costituzione, si fonda il Paese.

Mafalda rappresenta una nuova categoria di professionisti che, da buoni boomer quali in gran parte siamo, non capiamo. Non ci sforziamo di capire. Deridiamo. Offendiamo. “Quelli dei selfie”. Così, quando Mafalda ha proposto un sindacato di categoria degli influencer. gran parte dei soloni non l’ha mica presa sul serio. Che è, mica lavoro? Dagospia, sì quel sito con tutte quelle donne svestite e allusioni volgarotte, addirittura titola: “Siamo alle comiche finali. Le influencer chiedono un sindacato per proteggere i diritti di chi si spara selfie e pose. Cosa minacciano altrimenti, lo sciopero delle stories?”.

Ok, caro D’Agostino, vuoi sapere lo sciopero delle stories, come lo avete definito, quanto costerebbe? Te lo dico io, anzi, te lo dice il Wall Street Journal che ha stimato, per un campione di aziende italiane che hanno investito in influencer marketing, un aumento del fatturato che va in un caso su tre tra i 100mila e i 250mila dollari. Ma che non è chiaro di cosa stiamo parlando era già evidente dal credere che gli influencer siano quelli che si fanno i selfie. Partendo dal presupposto che influencer, come ogni parola che non ci sforziamo manco di tradurre dall’inglese, è colui che influenza. Praticamente fa da testimonial, come Gerry Scotti per il riso Scotti, ma attraverso i canali digitali.

Cosa vuol dire, questo? Che le aziende possono investire in professionisti del digitale e della comunicazione social e quindi orientare il marketing verso un target di utenti ben definito attraverso, appunto, delle persone che hanno un seguito in un determinato settore. Provo a spiegare, sempre per quelli che la pensano come i titolisti di D’Agostino, che il successo del marketing web a confronto di quello tradizionale, in cui attraverso i mass media si lanciava un messaggio 1 a N sperando venisse recepito da chi di dovere, è proprio la possibilità di rivolgere gli sforzi in comunicazione (e pubblicità) a un utente molto meglio profilato, quindi potenzialmente più in target con il tuo prodotto.

Viene da sé che influencer non è solo Mafalda De Simone che tra un selfie e un altro propone capi di abbigliamento, ma lo sono anche quegli utenti, tiktoker, youtuber competenti nelle loro materie di riferimento e che parlano di cucina, di videogiochi, di make-up, di estetica, di strumenti musicali o per la pesca, di auto, moto etc.etc. Vale a dire tutti quelli che, dalla creazione di contenuti, sono in grado di generare ricavi.

Ok, allora perché non ci ha pensato la Ferragni? Sì, mi è capitato di sentire anche questo. I casi come quello di Chiara Ferragni o Clio Make-Up sono casi di eccellenza. Volendola vedere come nel calcio, che forse è un argomento che noi boomer almeno proviamo a capire, anche se non seguo lo sport conosco comunque Cristiano Ronaldo e Leo Messi. Sono a un livello talmente top che non devono certo fare sindacato, anzi: si sono costituiti in impresa. Il sindacato serve a tutelare i lavoratori, e non credete che nel settore non ci siano piccoli professionisti che generano importanti ricavi e che – pensate! – ci devono pagare anche le tasse.

Negli Stati Uniti, tanto per dirne una, una sorta di sindacato l’hanno messo in piedi: si chiama TCU (The Creator Union) e tutela i content-creator (creatori di contenuti) supervisionando i contratti formali tra aziende e influencer. Altra storia, rispetto all’Italia dove si sintetizza un mercato milionario con l’immagine di giovani donne che si scattano foto in abiti succinti.

Prima che la situazione esploda, altra cosa in cui in Italia siamo campioni (provare a mettere le pezze a colori a danno già fatto), l’idea di un sindacato o associazione di categoria sarebbe fattivamente utile anche a definire, finalmente, questa fattispecie lavorativa, che al momento – ve lo dico – non esiste.
Se sei un libero professionista influencer, ma anche se nella vita campi gestendo social media o scrivendo per siti online (tre dei lavori che noi in Italia sempre facciamo finta non esistano ma che esistono e vanno pure forte), devi affidarti a codici ATECO che poco hanno a che vedere con la reale professione esercitata.

Un sindacato o associazione di categoria che porti istanze del genere nei palazzi che contano, che tuteli i diritti, che aiuti a far emergere un sommerso che in questo momento esiste nel settore, non può essere che una buona idea comunque la si veda. Ma in questo Paese, vecchio e presuntuoso, dove abbiamo sindacati e collettivi per ogni cosa, gli influencer restano dei muccusielli che si scattano le foto con i telefonini.

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