E’ divenuto finanche stantio dover ripetere che la crisi della politica in Italia dipende dalla cancellazione di quegli organismi previsti dalla Costituzione chiamati partiti, che hanno il compito di collegare il popolo alle istituzioni. Un filtro, cioè, che aggreghi le diverse visioni sociali e politiche indirizzandole con il metodo democratico, a scegliere coloro che poi dovranno diventare, all’esito delle elezioni, i futuri reggenti dello Stato. Se manca questa cinghia di trasmissione, ai vertici dei Palazzi che contano arriveranno persone senza idee, sprovviste di valori e finanche di un minimo di cultura politica. Gente, insomma, scelta alla buona, perlopiù obnubilata, che vaga senza una visione socio economica coerente.
Poiché la carica non santifica chi la ricopre, un improvvisato governante resterà quello che è ancorché sia assurto ad alte cariche governative e parlamentari. Ora, se il Paese è governato da questi orecchianti, selezionati non da vere forze politiche attraverso il metodo democratico, bensì da vere e proprie ditte intestate a persone, nessuno dovrà meravigliarsi dello scadimento del contesto generale. Insomma, ai partiti tradizionali sono subentrate forme metafisiche dei medesimi, dove non si milita più per credo ideale, bensì per avventura ed interesse. Risultato: i politici formati sui libri e sui giornali, forgiati dalla lotta elettorale, sono stati sostituiti, man mano, da copie sbiadite di loro stessi. In questo panorama desolante e monotono, idealità e credo politico hanno ceduto inesorabilmente il passo ad una specie di riffa tra chi offre agli elettori lauti premi e scelte di convenienza in base alle quali si orienta il consenso. Coloro che non inseguono più modelli di società, progetti di riforma, ma occasioni più ghiotte per ciascun blocco o ceto sociale da cui poter trarre voti, avranno il fiato corto ed il passo incerto. In questa palude stagnante e ripetitiva i governi, pur cambiando, nominalisticamente collocazione e denominazione, ripetono il solito andazzo di utilizzare la leva della spesa statale a debito crescente. Agli occhi degli elettori, intenti a valutare le convenienze che vengono messe sul piatto, gli uni valgono gli altri e tutto si confonde e si perde.
Tuttavia le ultime Politiche hanno decretato un ribaltone e quello che fino a un mese fa era il maggior partito di opposizione vedrà ora il suo leader sedere a Palazzo Chigi con le prospettive, oltre la condivisione delle proposte, di poter finalmente mettere mano a quel governo politico che da anni non si realizza nel Belpaese. La speranza è che con esso si avrà una nuova opportunità di riformare lo Stato, i principali servizi monopolizzati dal medesimo, aprendo le porte alla concorrenza, economicità ed efficienza come orizzonte di riferimento per uomini ed imprese. Una maggioranza uscita dalle urne con numeri più che eloquenti e sufficienti, con un leader designato in pompa magna dal consenso popolare, non dovrebbe trovare difficile realizzare questi propositi riformisti che tali restano sotto qualunque bandiera essi avanzino. Requisiti che basterebbero in ogni altra democrazia occidentale per mettere subito mano ad un governo ed al lavoro che questi si prefigge di fare. Purtroppo in Italia le cose non vanno per quel verso semplice e consequenziale al voto: nossignore, in casa nostra si devono fare i conti con molte variabili, egoismi, megalomanie, sussieghi e furbizie in abbondanza da parte dei titolari delle ditte che chiamano partiti.
Ecco che già con le elezioni dei presidenti dei due rami del Parlamento la cosa si è ingarbugliata e le ripetute dichiarazioni di un amalgama inossidabile nel centrodestra sono diventate parole al vento. Al Senato si è imposto La Russa, che dopo anni di militanza dura e pura in campo missino, alle soglie del secondo scranno della Repubblica, manca poco che diventi un gentleman anti fascista, uno statista di comprovato equilibrio. C’è da chiedersi che fine abbiano fatto Marcello Pera, eletto tra le file di FdI, oppure Giulio Tremonti. Ma non basta. Il centrodestra si è spaccato in aula con FI che non ha preso parte al voto. Il solo Berlusconi si è presentato nell’emiciclo non senza però prima aver annotato parole di fuoco (“inaffidabile, arrogante, insopportabile”) all’indirizzo di Giorgia Meloni. Quale l’origine di questa falsa partenza? Quali grandi problemi di fondo divaricano gli alleati? Il diniego della Meloni a nominare ministro l’on. Ronzulli, nuova badante del Cavaliere, dopo l’eclissi (e l’abbandono di Forza Italia) del duo Pascale – Rossi? Insomma: le solite “guarrattelle” berlusconiane, l’eterno e ciclico ripetersi di un uomo geniale che non riesce a reagire alle pulsioni dei nani e soprattutto delle ballerine alle quali pretende di far recitare ruoli di primo piano. Se queste sono le avvisaglie non c’è da invidiare Meloni che di struttura politica ne ha da vendere. Certo però è triste essere poeti laddove le arti sono ignorate e preferite all’alcova.
*già parlamentare
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