“La censura oggi? L’Italia resta un paese democratico, non è la Cuba di Castro, il Venezuela di Chavez, non ci arrestano, abbassano i decibel del volume”. A pronunciare queste parole, nel 2010, fu Roberto Saviano, lo scrittore insignito del titolo di editorialista di punta dell’Espresso per il fatto di essere riuscito a copiare bene i nostri articoli. Faceva riferimento alle presunte resistenze del governo Berlusconi alla realizzazione del suo programma, “Vieni via con me”.
Naturalmente quel programma andò poi regolarmente in onda e sono molti a chiedersi ancora quale maestà sarebbe stata lesa se non fosse stato così. D’altra parte sarebbe stato strano se Berlusconi, editore del romanzo Gomorra, avesse censurato la sua gallina dalle uova d’oro nel momento in cui intendeva appropriarsi della scena sulla Rai. In effetti, però, per una volta Saviano disse qualcosa di sensato, a parte il riferimento selettivo ai Paesi in cui si praticherebbe la censura.
Il silenzio degli “onesti”
Lo scrittore, infatti, che pure disse di voler lasciare l’Italia dopo l’assoluzione dei boss che lo avevano minacciato, non ha detto una parola su una vicenda almeno altrettanto grave: l’intervista in cui il boss di camorra detenuto Augusto La Torre minaccia un nostro giornalista, Giuseppe Tallino, il sostituto procuratore antimafia Alessandro D’Alessio e il capo della procura di Santa Maria Capua Vetere Maria Antonietta Troncone. Questa volta le minacce non erano impacchettate in una memoria difensiva e sono arrivate al grande pubblico con una procedura decisamente meno “rituale” e proprio per questo più inquietante.
La censura dei poteri forti
Quello che Saviano profetizzò si è verificato. Il gruppo di potere di cui lui è espressione ha messo la sordina alla notizia delle minacce a due magistrati e a un giornalista vero, tutti in prima linea contro la camorra. Naturalmente il gruppo L’Espresso non è stato l’unico. I dipendenti di Francesco Gaetano Caltagirone non sono stati da meno e anche gli altri grandi giornali hanno fatto finta di niente. Così gli alfieri della libertà di pensiero, di parola, di critica, di cronaca e di satira hanno “abbassato i decibel del volume”, per dirla con la sgraziata espressione dello scrittore copione.
La distrazione dei colleghi
Qualche collega ha tentato persino un approccio tardivo in stile “volemose bene”, affermando candidamente di non aver sentito, di non aver saputo quello che dicevamo in apertura di giornale da più o meno una settimana. Eppure la vicenda è approdata persino in parlamento, grazie all’intervento di moltissimi parlamentari di maggioranza e opposizione. Tutte cose da noi regolarmente riportate, così come la decisione del procuratore Troncone di denunciare il boss.
Il giochetto dei nomi
Stavolta, però, il club esclusivo di quelli che, loro sì, possono definirsi minacciati ha un po’ esagerato. La cosa è troppo grave per passare inosservata. Troppo perché non si noti il solito giochetto del “non li nomino così non mi rubano la scena”. In questo modo hanno calato le carte e persino il più ingenuo dei lettori ha potuto riconoscere il pensiero riposto di certi “colleghi”.
Se l’onestà diventa un club esclusivo
L’antimafia, secondo loro, non è il naturale atteggiamento di un cittadino che, riconoscendosi nella legge, disconosce l’autorità del mafioso e si rifiuta di piegarsi alla sua prepotenza continuando a svolgere il proprio lavoro. Secondo loro l’antimafia è un tesserino professionale che dà diritto a un riconoscimento sociale, economico, politico e persino previdenziale.
L’antimafia siamo tutti noi
Chi non fa parte del “sistema” non ha diritto di menzione, deve solo starsene tranquillo e ingoiare l’indifferenza dei colleghi che lo guardano da lassù, dall’Olimpo degli Eletti. L’importanza di un giornale come il nostro è proprio questa. La nostra battaglia è la battaglia dei nostri lettori. Della gente comune che, senza chiedere nulla in cambio, combatte per il miglioramento della propria società.