E’ di queste ore lo sciopero indetto dall’Usigrai, l’Unione Sindacale Giornalisti Rai, fondata da Beppe Giulietti, arguto e simpatico giornalista, nonché parlamentare prima del Pds-Ds, poi di Italia dei valori. Dai suoi trascorsi ben si comprende a quale orientamento politico e culturale egli appartenga, ma per essere più espliciti, diremo che uno dei più noti propositi di Giulietti fu il voler liberare l’Italia da Berlusconi e dal Berlusconismo. Uno sparuto gruppo di giornalisti si è riunito innanzi alla sede Rai di Roma, luogo ove fa bella mostra una gigantesca statua di bronzo del celebre cavallo, opera dello scultore siciliano Francesco Messina. L’imponente scultura suscita ancora discussioni tra gli esperti di storia dell’arte, dubbiosi sull’interpretazione da dare alla posa del quadrupede. Ovvero, se questi si stia sedendo, perché stanco e moribondo, oppure si stia alzando per andare in battaglia. Un interrogativo che, a ben vedere, non riguarda solo il cavallo ma anche l’intera Rai, ente pubblico che da decenni si barcamena tra soggezione partitocratica e voglia di indipendenza. Lo sparuto gruppo di giornalisti presente alla manifestazione, non ha sciolto il dubbio sul destino dell’azienda: poche decine di persone che inneggiavano alla liberazione della Rai dalle bramosie e dagli interessi di partito. In Rai i giornalisti sono oltre duemila, dei quali circa cinquecento sono stati promossi dirigenti: quasi il triplo di quelli della più famosa Bbc inglese (oltre che meglio pagati). L’intenzione di depurare la Rai dalle ipoteche politiche, oltre che vecchia ed alquanto logora, è anche condivisibile, ma arriva fuori tempo massimo e con scarse credenziali di disinteresse. D’altronde, che l’Usigrai sia, di per se stessa, una centrale sindacale, nella quale le tessere di partito hanno sempre contato, è risaputo da tempo, così come tutti sanno che, al momento opportuno, quelli che potevano hanno fatto valere le protezioni di cui godevano dentro i partiti politici, per scalare le posizioni di vertice. Un altro colpevole ritardo proviene dalla riforma della Rai varata, nel 2015, dal governo Renzi (centrosinistra). Una riforma che non ha apportato alcunché di significativo rispetto alla Gasparri del 2008 (centrodestra). Tra le modifiche introdotte, la designazione del CdA, passato da 9 membri a 7, quattro dei quali nominati da Camera e Senato, due dal governo (tramite il Ministro del Tesoro quale azionista), e uno dall’assemblea dei dipendenti. Insomma, a ben vedere, l’ipoteca politica di Governo e Parlamento, veri editori di riferimento, non è mai stata rimossa. Anzi, sostanzialmente, è stata confermata dallo stesso centrosinistra che pure aveva strepitato non poco contro la precedente riforma ed il presunto conflitto di interesse del Cavaliere. Da allora le cose in Rai hanno continuato a funzionare nel solito modo ancorché Beppe Giulietti e l’Usigrai si siano potuti… distrarre. Ma quello che gli innovatori ed i contestatori fingono di non ricordare è che l’ultima riforma ha confermato l’ipoteca ed il controllo statale su di un ente pubblico che continua a produrre debiti e scandalo, oltre che una scadente qualità del prodotto radio televisivo. La Rai assorbe circa due miliardi di euro dal canone televisivo, mentre solamente 700 sono i milioni che prende dalla pubblicità. Stiamo parlando di un’azienda che, senza il contributo della tassa statale, sarebbe fallita dopo il primo trimestre dell’anno. Un colosso dai piedi di argilla, con una massa di dipendenti, non precisamente determinata, che si aggira intorno alle undicimila unità; per non dire delle decine di sedi e di centri di produzione sparsi un po’ ovunque, anche se poi oltre il 50 per cento della produzione viene appaltata all’esterno! Ma non basta. Quasi sempre, infatti, gli appaltatori fanno parte dell’ente stesso appaltante se non addirittura sono proprio loro stessi a produrre il programma che conducono attraverso società di comodo. Una vecchia tradizione quella della promiscuità oltre a quella delle assunzioni per chiamata diretta a “cocotte” e parenti di quelli che contano politicamente, oltre al ricovero di giornalisti di partito o di area. Fin dai tempi di Ettore Barnabei, il Direttore Generale che Amintore Fanfani e la Dc posero a guardia della cosiddetta informazione pubblica e che non fece mai mistero che i propri figli avessero società di produzione televisiva esterna. Eppure c’è chi rimpiange quella produzione Rai che assicurava almeno programmi istruttivi, cultura, teatro, dibattito politico. Insomma: un’onesta e lampante spartizione tra maggioranza ed opposizione. Oggi nella versione dell’ipocrisia politica, si rivendicano nuovi modi d’essere, ma al momento opportuno si tace e ci si accontenta. Insomma c’è poco da sperare che la Rai si privatizzi diventando davvero un Azienda autonoma, soggetta ai criteri di gradimento del pubblico. La sensazione e che la vera partita si giocherà al solito tra… partiti ed arrivati, ai posti di comando.