Riforma Calderoli, un salto nel buio che divide il Paese

Lo scorso 26 giugno, 4 autorevoli membri del Comitato per i Livelli Essenziali delle Prestazioni (Clep), Giuliano Amato, Franco Bassanini, Franco Gallo e Alessandro Pajno, hanno rassegnato le proprie dimissioni dall’organismo in capo al Ministero per gli affari regionali e le autonomie, retto da Roberto Calderoli. Il Comitato doveva sciogliere i complicati nodi per la definizione dei Lep, affinché l’Autonomia Differenziata diventasse un processo compiuto. Due i punti più alti d’attacco al disegno di legge Calderoli: spesa storica e negoziabilità dei Lep. Il criterio della spesa storica, secondo i quattro membri dimissionari, come più volte scritto su queste pagine, “rischia di cristallizzare le diseguaglianze”, ovvero accentua le divisioni territoriali. Anzi, le ha create proprio questo criterio le differenze socio-economiche tra nord e sud Italia.
Sul tema delle risorse per finanziare i Lep, anch’esso più volte ribadito da questo giornale, essi sostengono che non vi è comparazione complessiva tra i Lep e le risorse a disposizione. Poiché gli equilibri economici generali dello Stato impongono il pareggio di bilancio (ex articolo 81 della Costituzione) e il disegno di legge Calderoli fissa il paletto dell’invarianza di spesa, ovvero l’assenza di nuovi quattrini per finanziare i Lep, come si finanza la nuova autonomia delle Regioni del Nord? A discapito delle Regioni che non la richiedono, ovvero del Sud. Semplice.
Da ultimo, ma non meno grave, per i quattro ci sono materie per le quali si escluderebbe il trasferimento alle Regioni, secondo gli stessi ci sono dei contenuti non negoziabili, quali istruzione, porti, aeroporti, ferrovie, autostrade, reti dell’energia e del gas, telecomunicazioni. Ma le defezioni sull’autonomia differenziata non finiscono qui. Si aggiunge anche un portatore di interessi tra i più qualificati a mostrare perplessità, ovvero la Banca d’Italia. La banca centrale esprime forti dubbi che pesano come macigni sul percorso messo in campo dal Governo Meloni e, principalmente, dalla Lega.
I banchieri, giustamente, badano al sodo per difendere il liberismo economico dentro la cornice capitalista del funzionamento dello Stato. Per questo motivo aggiungono benzina sul fuoco. Questi sono preoccupati dall’atteggiamento delle imprese, che potrebbero “spostarsi” laddove l’autonomia differenziata prevederebbe quadri regolamentari più favorevoli che altrove proprio nelle materie trasferite. Anche i lavoratori potrebbero essere allettati da certificazioni e abilitazioni regionali, al punto da preferire una mobilità geografica, accentuando ulteriormente gli squilibri territoriali.
Altro motivo di preoccupazione, secondo questi, risiede nella mancata analisi della efficienza e/o efficacia della gestione decentrata delle materie. Cioè, come si può stabilire, a priori, che l’attuazione dell’autonomia asimmetrica porti a un risparmio alle casse pubbliche, spostando una funzione dallo Stato centrale ad una Regione che la richiede? A tal proposito nulla è dato sapere. All’appello manca ancora uno studio finanziario dimostrante che la differenza normativa tra le Regioni porti a una maggiore concorrenza tra le aree del paese. In soldoni, i capitalisti (banchieri) sono preoccupati che l’autonomia differenziata metta in discussione la competitività tra i territori, ciò di cui si alimenta, principalmente, questo liberismo economico.
Insomma, le considerazioni dei quattro membri dimissionari del Clep e della Banca d’Italia aggiungono motivi critici alla spaccatura del paese e, neppure velatamente, sono preoccupati delle Regioni in ritardo di sviluppo in una eventuale condizione di ulteriore disarticolazione amministrativa tra nord e sud. Il disegno di legge approvato dal Governo Meloni non definisce le regole di compartecipazione delle aliquote tra Stato e Regioni autonome. Nel momento in cui il residuo fiscale rimane alla Regione autonoma, come si ridefinisce il fondo perequativo per le Regioni in ritardo di sviluppo?
Non certamente può rispondere a quesiti del genere un ministro che è contro i meridionali, gli immigrati e appella una donna di pelle nera (Cecilie Kyenge) al pari di un orango. Il ministro Calderoli deve studiare e molto per recuperare una cultura istituzionale che la Costituzione sancisce essere unitaria, solidale e inclusiva. Il resto è solo ulteriore divisione del Paese, a danno di quel Sud in debito storico del tanto derubato e dell’adeguamento di pari diritti nazionali.

di Raffaele Carotenuto, scrittore e meridionalista

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