Quando Luigi Einaudi fu eletto Capo dello Stato, un arguto piemontese – suo conterraneo rimasto anonimo – ebbe a scrivere: “dopo i principi sabaudi ascese al trono il professor Einaudi”. Un’espressione che era, all’epoca, largamente condivisa per l’autorevolezza di colui il quale aveva guidato la Banca d’Italia e la politica economica sotto la presidenza del Consiglio di Alcide De Gasperi, nel primo dopoguerra. Economista di scuola liberale, molto noto in Europa, Einaudi era un uomo non solo di profonda e specifica cultura, ma anche un intellettuale a tutto tondo, cattedratico, scrittore ed editorialista, che contribuì a corroborare una cultura che fu posta alla base del boom economico italiano dei primi anni ‘60 del XX secolo. Profili di cotanta caratura, oggi, non se ne vedono in giro, per quante sperticate siano le aggettivazioni usate per molti degli attuali candidati alla somma carica del Colle. E tuttavia ben potrebbe assurgere al Quirinale un uomo di grande spessore culturale e di sicuro orientamento liberale, fortemente convinto che la Nazione non abbia bisogno di un algido notaio, tantomeno di un cosiddetto “intellettuale” vicino ad un’area politica e men che meno di un politico camuffato da indipendente. Insomma, un uomo che abbia in sé la capacità di orientare il Parlamento a mettere finalmente mano alle tanto invocate riforme di sistema senza le quali il futuro del Belpaese sarà consegnato alla solita politica dei “pannicelli caldi” ed alle arcinote manovre economiche reiteratamente impostate sull’uso del Governo della leva di spesa a debito crescente. Minestre riscaldate cui, almeno a quanto visto finora, neanche un ex banchiere di prestigio come Mario Draghi ha potuto e saputo dare corso. Parliamoci chiaro: l’ascendente dell’attuale premier gli deriva dalla pregressa carica di governatore della Bce e dalle politiche che quest’ultima ha messo in atto allorquando ha soccorso talune nazioni alle prese con economie dissestate o vittime della pregressa crisi economica ante Covid. In buona sostanza il nostro capo del governo ha saputo allargare i cordoni della borsa sostenendo banche e banchieri, fino al punto di prestare danaro senza interessi a questi ultimi che poi li hanno investiti in titoli di Stato, guadagnandoci sopra, “soccorrendo” il finanziamento dell’ulteriore stock di debito statale e delle politiche assistenziali. I sostegni che vengono oggi a Draghi dalle Banche e dalle cancellerie europee, hanno questa motivazione di fondo ancorché la riconoscenza sia sempre un meritevole ed apprezzabile modo d’essere. Tutti questi meriti non hanno niente a che vedere con l’economia politica e con le questioni legate ad una visione liberale dello Stato e della tutela del libero mercato, capisaldi essenziali per un rinnovamento delle istituzioni, della necessità di far cambiare la mentalità politica corrente. Per uccidere il Leviatano statale occorre un torero, un uomo di larghe vedute e di consistente cultura costituzionale, non un banderilleros che infila punte acuminate sul groppone dell’animale per fiaccarne le forze. Chiarito questo aspetto, è facile considerare che la candidatura di Draghi sarebbe un simulacro dell’occorrente, così come paiono essere quelle di una personalità politica d’élite come Letizia Moratti e di un ex magistrato come Carlo Nordio, tanto per valutare le indicazioni proposte dal centrodestra. Dello stesso inidoneo stampo sarebbero le candidature di ex politici di lungo corso come Pierferdinando Casini, Giuliano Amato et similia che pure serpeggiano, a mezza voce, nel centrosinistra. A meno che non ci sia una folgorazione sulla strada del Colle con nominativi di assoluta capacità filosofica costituzionale , economica ed istituzionale nel campo della cultura liberale, resta la candidatura di Marcello Pera che riassume in sé buona parte delle qualità occorrenti per realizzare quel presupposto liberal riformista di efficientamento e modernizzazione dello Stato. Riusciranno gli attuali partiti, con i loro limiti di democrazia interna, di collegialità decisionale, di visione in campo vasto, a cogliere queste ragioni anteponendole ai soliti interessi di parte? Se la scelta del Presidente della Repubblica sarà viziata da calcoli su future contingenze di tenuta della maggioranza di governo, sulla contrattazione di poltrone ministeriali e del sottobosco che le accompagna, sarà arduo pensare di farcela. Si dice che la politica, come analisi obiettiva dello stato dell’arte e delle necessità generali a cui dover fare fronte, è scritta sui muri a caratteri cubitali. Altrettanto vera, però, è la condizione che per poterla scorgere occorre guardare avanti e non soffermarsi alla punta dei propri piedi ove, spesso albergano gli interessi spiccioli. Al punto in cui siamo, ancor più pieni di debito pubblico coi fondi assegnatici dalla Ue che finiranno, non occorre un erede di Mattarella al Quirinale, ma un degno emulo di Luigi Einaudi.