Il comunista vestito da liberale

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

“Parce sepulto”, perdona e taci su colui che è stato sepolto, scrive Virgilio nell’Eneide. Ma chi ha avuto l’onore e l’onere di assurgere ai vertici dello Stato, occupato posto di responsabilità politica ed istituzionale, non è assoggettabile a quella celebre massima. Quella tipologia di persona è appunto pubblica ed in quanto tale assoggettabile al giudizio sul suo operato. Ovviamente saranno gli storici, a tempo debito, a tracciare il giusto bilancio. Ciò non toglie, però, che innanzi alla scomparsa di un politico di così grande spessore, come Giorgio Napolitano, anche la cronaca abbia i propri diritti ad accogliere le valutazioni fatte dai suoi contemporanei, nell’immediatezza del luttuoso evento.

Innanzi alla morte di uomo che ha influenzato, dall’alto soglio del Quirinale, gli eventi politici e parlamentari, il primo sentimento da manifestare è il rispettoso e sincero cordoglio, il dovuto ossequio per chi ha servito la nazione. Un rispetto che deve eliminare dal giudizio faziosità, pregiudizievole riserva, tifoseria partigiana ed idiosincrasia politica, per lasciare spazio ad un’analisi obiettiva del suo operato. In parole povere, ricordarlo senza una retorica di circostanza che ricorra ai soliti luoghi comuni. Se dovessi definire Giorgio Napolitano con un epigramma userei l’espressione: un inossidabile comunista vestito da liberale. Il tratto distintivo del due volte Presidente della Repubblica, Presidente della Camera e Ministro, fu infatti l’aplomb discreto e felpato di un certo modo di fare politica, sempre lontano dalle grida e dalle isterie dello scontro.

Una discrezione che si palesava sia nel modo di ragionare, sia nei toni del ragionamento, nella mimica misurata dal gesto gentile oltre che nell’aspetto di un uomo sempre vestito con inappuntabili grisaglie inglesi di ottima qualità, tanto diverse dai suoi compagni di partito della sinistra antagonista e protestataria. Insomma prima di ascoltarlo notavi una diversità distintiva già nell’aspetto. Quel tratto era anche di natura politica: quella di un comunista moderato e riformista, che non vagheggiava rivoluzioni o radicali sovvertimenti sociali, non utilizzava vocaboli acuminati contro gli avversari, ma la forza del ragionamento come fattore persuasivo frutto di quel carattere determinato che spesso sfoggiava.

Tuttavia proprio quell’aspetto risultava talvolta ingannevole sul piano sia politico che umano. Egli infatti, fu sempre intransigente nel difendere la propria convinzione che il marxismo ed il socialismo fossero la chiave di volta per governare la società e mitigarne le disarmonie e le contraddizioni. Per capirci: non abiurò mai quei convincimenti in pubblico ancorché avesse preso atto, prima di molti altri, del fallimento del socialismo reale e della fine dell’egemonia ideologica della nazione modello, l’Urss, e del partito che la governava. Erede della tradizionale doppiezza morale e politica dei comunisti di vecchio stampo, Napolitano fu ligio ed ossequioso verso le leadership che si susseguirono in via delle Botteghe Oscure e le politiche filosovietiche da queste partorite.

Un caso eclatante lo testimonia: il non aver mai condannato l’invasione dei carri armati russi in Ungheria nel 1956 ed in Cecoslovacchia nel 1968. Parimenti fu tra gli ortodossi del Pci quando questi mossero feroci critiche alla presenza dell’Italia nell’alleanza atlantica (Nato), ossia alla scelta ed alla collocazione del nostro Paese nel cosiddetto blocco occidentale contrapposto alle nazioni dell’Est Europa riunite nel patto di Varsavia. Quindi fu liberale nei gesti ma comunista nella sostanza, e l’amicizia stretta col dittatore Comunista Iugoslavo Tito lo conferma.

Da Presidente della Repubblica operò un radicale cambiamento nel modo di agire del Capo dello Stato, sempre più protagonista e sempre meno notaio, ossia garante ed imparziale, stravolgendo a volte il dettato costituzionale. Ho sempre tratto l’impressione che, ritenendo poco qualificata ed esperta politicamente la classe dirigente assurta al potere, non se ne curasse, al punto tale da intervenire come fa un maestro con i propri studenti.

A tal proposito fu sempre evidente, da parte sua, l’antipatia per Berlusconi ed il centrodestra in particolare. In quel caso emulò Oscar Luigi Scalfaro suo predecessore al Colle, tenacemente anti Cavaliere. E poi: fu scorretto e partigiano allorquando tramò per la caduta del governo promettendo a Gianfranco Fini l’incarico di primo ministro, qualora Silvio fosse stato mandato anzitempo a casa. Una volta i magistrati inquirenti di Palermo tentarono di incastrarlo come Ministro degli Interni, nell’affare Stato Mafia, ma le guarentigie costituzionali riservate all’inquilino del Quirinale lo salvarono dal tentativo. Insomma fu “re Giorgio” ed al tempo stesso un  immarcescibile comunista.

*già parlamentare
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