I contatti con ex moglie e figlio prima del pentimento flop. Francesco Schiavone Sandokan tra strategia e paura

Francesco Schiavone con il figlio Emanuele Libero e l'ex moglie Giuseppina Nappa

CASERTA – Strategia? Che Francesco Sandokan Schiavone sia stato un artista della ‘bacchetta’ mafiosa è cosa nota. Ha provato a sfoderare la sua furbizia, malvagia, anche stavolta? Forse, lo scorso marzo, se ha scelto di tentare la strada della collaborazione con la giustizia è stato solo per farsi allargare le maglie del 41 bis (a cui era sottoposto dal 1998) e approfittare dei piccoli spazi che gli sarebbero stati concessi per dare (o ricevere) segnali a (o da) quel mondo libero che ormai gli era precluso.

È una possibilità. E restando su questa linea, potremmo pensare che una volta viste e magari sfruttate le finestre che gli si erano aperte, ha iniziato, poi, a tirare i remi in barca facendo naufragare, volontariamente, il suo pentimento. Un po’ come quando in una coppia uno dei due fidanzati inizia ad avere atteggiamenti tali da costringere l’altro a farsi lasciare (in questo caso il boss avrebbe spinto la Procura di Napoli a fermare la collaborazione e a chiedere al Viminale di revocargli il programma di protezione provvisoria attivato a marzo).
Sono, per ora, solo ipotesi. E sicuramente gli inquirenti della Dda partenopea e quelli della Direzione nazionale antimafia, le staranno esplorando (le nostre ma anche altre) per capire cosa realmente avesse portato Schiavone, quattro mesi, a tentare la strada del ‘pentimento’. Come procederanno? Innanzitutto analizzando i colloqui che il fondatore del clan dei Casalesi aveva chiesto di avere prima di entrare ufficialmente in quelli che dovevano essere i suoi 180 giorni di sostanziale isolamento, durante i quali dedicarsi all’illustrazione dei contenuti della potenziale collaborazione.

Schiavone aveva voluto vedere l’ex moglie, Giuseppina Nappa, ed Emanuele Libero Schiavone. Per quale motivo?
Abbiamo traccia del suo incontro con il figlio (nel corso del quale lo invitò a lasciare Casale) grazie all’indagine, coordinata dai pm della Dda Vincenzo Ranieri e Simona Belluccio, che ha riportato in carcere proprio il rampollo (dal 15 giugno è di nuovo in prigione – aveva lasciato quella di Siracusa il 15 aprile scorso – con l’accusa di essersi armato per reagire a dei raid di piombo commessi da un gruppo a lui rivale, verosimilmente connesso ai Bidognetti). Non abbiamo elementi, invece, sul confronto che ha avuto con l’ex consorte.

Ad ogni modo, se il tentativo di collaborazione è stata una strategia per riuscire a comunicare con l’esterno (sfruttando gli spazi che gli si sarebbero presentati), se è stata un’azione premeditata con precisi obiettivi da raggiungere (bisognerà capire, poi, se sono stati centrati – e sarebbe preoccupante – o meno), la matrice di tale piano è da cercare in questi contatti e in tutte le altre opportunità di colloquio, a noi non note, che al capomafia sarebbero state date in questa iniziale fase di collaborazione (tentata) con la giustizia.

Il bagaglio di informazioni mafiose che ha Sandokan non può essere messo in discussione. È stato il fondatore del clan dei Casalesi e ne ha occupato il vertice per anni. E non è da escludere che anche dalla prigione abbia potuto incidere, indirettamente e almeno negli anni immediatamente successivi al proprio arresto, sulla direzione della compagine mafiosa. Ha lui le chiavi del vero tesoro di famiglia, ha lui in mano gli elementi che potrebbero dare quelle conferme, che ancora mancano, per identificare gli imprenditori che hanno usato il suo ‘lievito madre’ (per dirla alla Nappa). Ha lui i nomi dei politici insospettabili che negli anni Novanta spalleggiavano ed erano spalleggiati non solo dal clan dei Casalesi, ma anche dalle altre mafie italiane. Ha lui le tracce per risolvere i troppi cold case che ancora affollano la storia criminale della provincia di Caserta. Ha lui la chiave (dovrebbe) per risolvere il mistero di Antonio Bardellino. Quindi, se ha fornito informazioni che la Procura di Napoli ha ritenuto datate, già esplorate nelle aule di giustizia, o non riscontrabili, è perché a un certo punto (sarà interessante decifrare quale e quando) ha deciso di non dire tutto ciò che sapeva. In caso contrario, se (ipotesi che riteniamo improbabile) ha realmente detto tutto e ciò che ha fornito non è stato ritenuto utile dagli inquirenti, allora a Sandokan si aprirebbero paradossalmente le porte della collaborazione impossibile, e in questo caso avrebbe fatto bingo (potrebbe beneficiare – semplifichiamo – dei diritti che hanno gli altri detenuti comuni).

Se non è stata strategia, abbiamo ancora altre due ipotesi da affrontare sulle possibili cause del fallimento della collaborazione. Il capomafia era intenzionato realmente a parlare con i magistrati, senza altri fini, ma non avrebbe voluto affrontare con sincerità alcuni argomenti (Bardellino? Il denaro di famiglia?). E in situazioni del genere, giustamente, la Procura (lo Stato) non può far patti con chi non è disposto a dire sempre e incondizionatamente il vero.

L’altra possibilità: gli era arrivato all’orecchio (anche se, teoricamente, non avrebbe potuto saperlo, perché verificatosi nel pieno dei 180 giorni in cui doveva restare ‘isolato’), che il figlio Emanuele Libero aveva ingaggiato una guerra con un gruppo rivale e che esponenti di questa compagine avevano esploso una raffica di mitra verso la sua casa di via Bologna. Memore delle parole del figlio, che gli aveva imputato (quando si incontrarono prima del via alla collaborazione) l’aver condannato lui e il fratello Ivanhoe a morte, dato che non avrebbero lasciato Casale nonostante il suo pentimento, avrebbe preferito fare in modo che il rapporto con la Procura finisse e che la sua prole (almeno quella ancora legata agli ambienti criminali) continuasse a godere del proprio oscudo mafioso.

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