Se ne è andato Massimo Bordin. Uno dei giornalisti più autorevoli e amati della storia della nostra Repubblica. Direttore di Radio Radicale per vent’anni, fino al 2010, era conosciuto anche come voce della rassegna “Stampa e Regime”, in onda sull’organo della lista Marco Pannella al mattino, dalle 7:30 alle 9.
Bordin lascia un grande vuoto in tutti noi. In tutti coloro che, da radioascoltatori o da operatori dell’informazione, si erano ormai affezionati alle sue battute pungenti, al suo puntiglio, alla lucidità del suo giudizio e nel racconto dell’offerta informativa quotidiana, attraverso la lettura e il commento dei titoli e degli articoli più significativi, ai suoi silenzi e persino ai suoi colpi di tosse. Uno degli ultimi grandi della nostra categoria, Bordin. Eppure tra un mese avrebbe perso il proprio lavoro insieme ai colleghi della storica Radio Radicale. I grillini non possono più tollerare che quella telecamera costantemente puntata sui lavori parlamentari, in aula e nelle commissioni, venga pagata con soldi pubblici. Dà troppo fastidio quello sguardo fisso sui processi, sui congressi di tutti i partiti politici, sui convegni in cui si parla del merito delle questioni, si cercano soluzioni attraverso il confronto e si lasciano fuori dalla porta slogan e buffonate elettorali. Quell’archivio inestimabile di voci, di idee, di informazione.
Avrebbero tappato la bocca anche a lui, a Bordin, tagliando i viveri a quell’organo di informazione che lui ha amato tanto da non riuscire ad allontanarsene nemmeno dopo i più aspri scontri con l’“editore” Pannella. Quella radio così preziosa, così puntuale, così corretta, così trasparente, così plurale. Il governo in carica ha messo nel mirino Radio Radicale e le altre 51 testate indipendenti che sono sopravvissute fino ad oggi, nonostante la crisi del settore e l’anarchia di Internet, grazie al fondo per il pluralismo dell’informazione, contro l’oligopolio dei grandi gruppi editoriali che si preparano a brindare alla strage della concorrenza. Proprio loro, i pentastellati, che avevano promesso di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, di farne un palazzo di vetro.
Una volta poggiato il deretano sulle comode poltrone di Camera e Senato si sono dimenticati della promessa delle dirette streaming nelle commissioni e hanno dato assoluta priorità al disegno che prevede l’eliminazione fisica delle piccole redazioni. Hanno approvato in fretta e furia un piano di smantellamento di tre anni, manco il tempo di organizzare una ristrutturazione aziendale per poter “stare sul mercato”, per usare le loro parole, e fronteggiare la concorrenza dei signori del cemento, dell’alta finanza, del conflitto d’interessi perché hanno tre televisioni nazionali e fanno pure politica. Cose del genere non si vedevano dal ventennio fascista.
Ma da anni, ormai, sono tornate di moda. Prima i giornalisti messi alla gogna sul blog, poi l’espulsione degli iscritti che si presentavano nei talk show o che rispondevano alle domande dei cronisti (poi questa “regola” è stata abolita, anche se non si sa da chi, e Luigi Di Maio va tranquillamente a farsi intervistare da Fabio Fazio, pagato con soldi pubblici). E ancora le orribili parole pronunciate dal vicepremier (“sciacalli”) e da Di Battista (“puttane”) nei confronti degli operatori dell’informazione. E gli insulti a questo o quel giornalista colpevole di non interpretare fedelmente il “pensiero unico” promosso dai gialloverdi, le esternazioni del sottosegretario all’Editoria Vito Crimi per giustificare il bavaglio e, soprattutto, il colpo di grazia: la cancellazione del fondo per il pluralismo e il mancato rinnovo della convenzione con Radio Radicale per le riprese dei lavori parlamentari. Ecco, Bordin non ha potuto evitare di assistere allo spettacolo indecoroso degli ultimi anni. Ma è riuscito almeno a evitare l’ultima umiliazione, quella di finire per strada, perdendo il lavoro per il quale ha dato la vita. Sempre al servizio dei radioascoltatori.
La sua scomparsa coincide con la fine di un’epoca. La scomparsa dell’informazione libera, come è stato per le radio libere schiacciate dall’era commerciale. Libere come Radio Radicale, l’unica che di pubblicità non ne ha mai fatta.