Aplomb regale

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

La morte di Filippo di Edimburgo, giunto fino alla soglia fatidica dei cent’anni, desta tristezza in quanti ebbero ad apprezzare l’impeccabile ed austera figura del marito della Regina d’Inghilterra. Non è facile vivere accanto ad una delle persone più potenti al mondo, ininterrottamente, per settant’anni di fila. Non lo è affatto se la parte che ti assegnano, nell’inappuntabile tradizione del cerimoniale della casa reale britannica, è quella del principe consorte. Un ruolo certo di primo piano, ma che per tutta la vita ti costringerà sempre a stare un passo indietro rispetto al tuo più titolato coniuge.

Eppure Filippo era anch’egli di nobile origine. Nato principe di Grecia a Corfù e nipote di re Costantino, appartenente alla casata reale di Danimarca, rinunciò ai suoi titoli nobiliari d’origine per sposare Elisabetta ed assunse un cognome prestigioso: quello dei Mountbatten, l’ultimo e più famoso dei quali, Luis, fu ultimo viceré dell’impero anglo-indiano. Grande ammiraglio della flotta inglese della Royal Navy, erede della secolare e famosa marineria britannica della quale il popolo inglese è sempre andato fiero. Tuttavia, quest’uomo alto, biondo, di bell’aspetto, nobile di suo, si dovette spogliare di tutto per poter sposare l’erede al trono di Londra, regina del Commonwealth, ovvero di Stati come il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Sud Africa.

Un immenso impero, prima coloniale e poi commerciale, che non ha avuto eguali nella storia dei popoli e delle nazioni eccezion fatta, forse, per l’Impero Romano. Per divenire principe consorte, Filippo cambiò finanche religione, diventando anglicano: non poteva non esserlo, dal momento che avrebbe sposato anche il capo della chiesa d’Inghilterra “fondata” nel 1534 da re Enrico VIII. Questi i fatti riguardanti Filippo, narrati sia dall’araldica che dalla storia inglese. Ma la storia politica e sociale del Duca di Edimburgo va ben oltre, dal momento che il nipote di re Costantino ha saputo non solo accettare il ruolo di subalternità assegnatogli dalla monarchia inglese e dal rigido protocollo dinastico, ma non ha mai ecceduto né ha fatto scandali: ha camminato lungo il sentiero assegnatogli dalla storia, con modestia e discrezione.

Ha fatto più Filippo di Edimburgo per la corona inglese, per il prestigio, il decoro e la credibilità della dinastia che, tutto sommato, molti principi ereditari della casata dei Windsor. A cominciare da quel re Eduardo VIII, fratello del padre di Elisabetta, che abdicò nel 1936 per amore dell’americana Willis Simpson, in un periodo nel quale il Nazismo minacciava l’Europa e la stessa Inghilterra. Fu quell’atto che portò al trono il fratello Giorgio VI, padre di Elisabetta, che alla sua morte ascese al trono. Credo non siano pochi gli italiani che hanno invidiato agli inglesi una regina ed un principe consorte come Elisabetta e Filippo, che ancora invidino la stabilità politica del Regno Unito, quel regime di assoluto liberalismo istituzionale e di centro del mondo evoluto, pieno di istituzioni millenarie in ogni campo dello scibile umano.

Patria del capitalismo, fin dai tempi di Bernard de Mandeville (medico e filosofo olandese, vissuto e morto in Inghilterra) e della “favola delle api” con la quale si introduce il concetto che i vizi privati producono pubbliche virtù. Che laddove la società si organizza liberamente, secondo una reciprocità di convenienze, legittimamente ed onestamente perseguite, ciascuno ha l’interesse a produrre il meglio al più basso prezzo possibile. Una filiera virtuosa, come quella delle api nell’alveare, appunto, che contribuisce a rendere efficiente la produzione dei beni ed assoggettarla alla legge della domanda e dell’offerta che avvantaggia il consumatore con la concorrenza tra produttori.

Venne in seguito il capostipite dei filosofi e degli economisti liberali quello Adam Smith col suo testo sulla “ricchezza delle Nazioni”: un libro che fonda l’economia politica e che indica la strada di come una nazione possa ricercare la prosperità per tutti i suoi cittadini senza privarli della libertà di intraprendere. Insomma la Gran Bretagna (Smith era scozzese) fu la patria sia del “Bill of Right”, la carta dei diritti dell’uomo, sia della rivoluzione industriale e del capitalismo. Governare su un siffatto popolo di millenaria tradizione non è semplice anche per quanti hanno avuto i talenti per farlo. Filippo, meta’ greco e metà danese, seppe entrare nello spirito di quel popolo fiero ed evoluto, fu capace di essere il garante di quella monarchia che lo aveva accolto nel proprio seno. Lo fece con aplomb regale, stando un passo indietro alla Regina, non come un cortigiano ma come un uomo che avrebbe saputo essere egli stesso un buon re.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome