Confiscate le ditte di Peppe Diana, ma è stato assolto in tutti i processi per camorra

La sentenza della Cassazione: sigilli a beni per svariati milioni di euro. Unica condanna riportata riguarda il concorso nell’estorsione al cognato Orsi. Per i giudici non ha fatto parte del clan

CASAL DI PRINCIPE – Confiscate tre società attive nel settore del gas e altri beni riconducibili all’imprenditore 62enne Giuseppe Diana (nella foto), originario dell’Agro aversano ma stabilitosi da diversi anni a Grazzanise. La seconda sezione penale della Cassazione ha confermato il decreto emesso dalla Corte d’appello di Napoli nel dicembre 2019 rendendolo definitivo. Ma i suoi legali, gli avvocati Marco Muscariello ed Antonio Abet, non sono intenzionati ad arrendersi. Vogliono portare nuovi elementi sul caso al tribunale di S. Maria Capua Vetere, che originariamente aveva emesso la misura. E se non basterà, sono pronti anche a rivolgersi alla Corte europea.
Diana è stato assolto in tutti processi, celebrati presso i tribunali di Napoli, Roma e S. Maria Capua Vetere, nei quali la Dda gli aveva contestato l’ipotizzata partecipazione al clan dei Casalesi, il riciclaggio di denaro della mafia nelle sue aziende e altri reati sempre connessi all’organizzazione mafiosa. Ma i verdetti dei giudici che lo hanno ritenuto definitivamente estraneo alla cosca non sono stati sufficienti a far togliere i sigilli alle sue proprietà.

Contro il provvedimento di confisca di secondo grado, gli avvocati avevano presentato ricorso per Cassazione evidenziando proprio che le presunte “condotte produttive del profitto illecito erano state tutte smentite con sentenze di assoluzione passate in giudicato e che anche il giudicato penale di prevenzione sulla parte personale era stato sostanzialmente modificato dalla Suprema corte, sebbene annullato soltanto con riferimento al tempo della pericolosità”. Avevano chiesto ai togati romani pure di rivedere il tema della sproporzione del valore dei beni riconducibile al Diana rispetto al suo reddito: i giudici, secondo gli avvocati, non avevano considerato il fatto che erano “stati acquisiti da parte di aziende gestite da società i cui significativi fatturati” erano stati trascurati nelle analisi. I legali avevano avanzato nel ricorso, inoltre, l’improcedibilità della misura di prevenzione per violazione del principio del ne bis in idem, dato che già la Cassazione si era espressa sulla confisca della Masseria Pucci, che rientra in parte pure nell’ultimo provvedimento di prevenzione.

La Cassazione ha risposto picche alle questioni sollevate dagli avvocati, affermando che Diana, riportando quanto tracciato da un’altra sezione della Suprema corte nel 2018, “è un imprenditore taglieggiato, poi sceso a patti con le organizzazioni di camorra operanti sul territorio”, che avrebbe “instaurato un proficuo rapporto di collaborazione” con la cosca “contribuendo all’arricchimento e all’espansione economica del clan di riferimento e garantendosi una posizione di monopolio nella distruzione del gas”. Il fatto che sia stato assolto nei procedimento di merito, non incide, ha sostenuto la Suprema corte, nella decisione del giudice di prevenzione “che può usare autonomamente gli elementi che hanno formato un procedimento penale non conclusosi con sentenza di condanna, a patto che l’assoluzione non sia determinata dalla non sussistenza delle imputazioni contestate”.

Agli appunti sollevati sulla situazione economica, la Cassazione a risposto riprendendo la perizia già oggetto delle valutazione dell’Appello con la quale era stata ribadita “l’assoluta insufficienza dei redditi leciti che il Diana ha dichiarato per anni, pari o prossimi allo zero, rispetto agli investimenti da lui effettuati e ha confermato l’esistenza di un’obiettiva sproporzione tra i capitali di origine lecita di cui il proposto aveva la disponibilità e le acquisizioni effettuate nel periodo di accertata pericolosità e, in particolare, la sproporzione tra i capitali utilizzati nelle acquisizioni societarie avvenute dopo il 2000”. I togati romani hanno aggiunto anche che la ricostruzione patrimoniale del Diana a decorrere dal 1978 non ha fatto emergere “fonti lecite di capitali che avrebbero potuto giustificare gli investimenti successivi”.

In merito alla revoca della confisca su Massera Pucci, secondo la Cassazione non costituisce il ne bis in idem perché era oggetto di un procedimento relativo al delitto di trasferimento fraudolento di valori (da cui l’imprenditore è stato assolto) e può essere ripreso in quello di prevenzione.

L’unica condanna irrevocabile riportata da Diana riguarda un’ipotesi estorsiva: ha spinto il cognato, Sergio Orsi, imprenditore attivo nel settore dei rifiuti, ucciso dal clan nel 2008, a pagare la tangente alla camorra. I giudici pure in questa circostanza non hanno riconosciuto a suo carico l’aggravante mafiosa. L’ultima assoluzione incassata da Diana è datata 2019 (che sarà proposta a S. Maria per rivedere la confisca): il tribunale lo ha ritenuto non colpevole dall’accusa di associazione mafiosa. Come non è colpevole di aver provato a comprare la Lazio riciclando denaro dei Casalesi. Ma i suoi beni, ha stabilito la Cassazione, vanno comunque confiscati. La sentenza della Suprema corte era stata emessa lo scorso 28 gennaio, le motivazioni sono state rese note tre giorni fa.

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