Ernesto Paolozzi, libertà come impegno

di Marco Plutino*

La riflessione che non si vorrebbe mai scrivere su un giornale è quella che ricorda un collega che non c’è più, tanto più se assiduo ospite di queste pagine e amico di chi scrive. Ernesto Paolozzi era uno studioso acuto e stimato, un intellettuale pubblico generoso e una splendida persona. La sua scomparsa prematura lascia un grande vuoto dentro – mai simili parole sono state meno retoriche – a chi lo ha conosciuto, un enorme dispiacere nelle sue schiere di studenti del passato e di oggi, un sicuro rammarico da chi per decenni l’ha potuto leggere dalle colonne dei tanti giornali con i quali ha collaborato o alle innumerevoli conferenze che teneva.

Ci sarà tempo e modo per ricordare al meglio la sua assidua presenza pubblica, la sua “militanza” culturale e intellettuale, la sua opera di prosecuzione del lavoro di Raffaello Franchini, a cui si deve più di tutti il mantenimento in vita e la difesa dell’eredità specificamente filosofica di Benedetto Croce.

Di Ernesto qui vorrei mettere in rilievo innanzitutto come il tratto tollerante e garbato, la sua giovialità e ironia, l’estrema disponibilità verso chiunque si fondevano, in un miracoloso amalgama, con convinzioni fortissime, sebbene mai sostenute in forma assertiva o dogmatica. Eppure sapeva eccome di essere nella ragione (se questa espressione ha un senso), ma mai si è crogiuolato nella soddisfazione: c’era e c’è troppo da fare. Sostenitore di un’ideologia – quella liberale – senza serie alternative, dispensatrice di diritti, diffuso benessere e, se intesa come da lui in chiave progressista, coesione sociale, in questa chiave il Suo liberalismo era una concezione della vita, una visione del mondo ispirata all’ideale della libertà da realizzare nell’azione concreta e nelle condizioni storiche date.

La sua visione, innestatasi su una grecità di fondo (sia, per così dire, antropologica, sia etico-politica), nasceva da una profonda adesione alla dottrina crociana che negli ultimi anni aveva contaminato con il pensiero della complessità (in particolare Morin) in una fusione di orizzonti che mettevano al centro la formazione dell’uomo, e che vedono nell’esercizio filosofico sempre e comunque una pedagogia. L’ideale liberale come “utopia concretamente operante” si dispiega, nel suo pensiero, senza miti del progresso e senza meccanicismi, come libertà creatrice di un individuo non astratto ma intensamente relazionato. Tra ideali e realtà non può e non deve esserci opposizione perchè la realtà “è cieca senza idealità e gli ideali sono vuoti senza realtà”. “Il liberalismo va sempre messo in movimento”, “collocato nella storia, nella realtà”.

Ricordava a noi giuristi che il liberalismo non può ridursi a tecnica perchè la libertà “non può trovare alcuna autorità esterna a se stessa”. Nel suo noto e fortunato libro “Il liberalismo come metodo” (da cui sono tratte le citazioni precedenti) concludeva che il liberalismo è sempre un’interpretazione della realtà attraverso il principio di libertà, si concretizza in un costante, responsabile, impegno nel concreto svolgersi della storia. E’ un suo grande merito aver liberato il campo delle interpretazioni di Croce da letture semplificatrici, derivanti magari da una frase estrapolata tra le decine di migliaia scritte dal grande maestro.

Lo storicismo assoluto di Croce e di Paolozzi non è passiva attesa del trionfo di un principio, la libertà, che permea la realtà, ma impegno attivo e responsabile che, questo sì, appoggia il proprio cauto ottimismo (ma io direi realismo, senz’altro) sul fatto che “ovunque la libertà [è] stata conculcata, è rinata una volontà di liberazione forte e prepotente”. Una dialettica che non ha nulla di meccanico ma è basata su forze vive. Ecco che “la giusta soddisfazione che i liberali possono e debbono esprimere” si deve accompagnare con la cautela perchè la libertà non è mai definitivamente al sicuro. Conquista sempre da rinnovare e mettere al sicuro nella inarrestabile dialettica della vita.

“La stabilità e l’immobilità sono l’eterno sogno umano”. L’irraggiungibile “pace perpetua” – ci ha ricordato – “il nostro dramma quotidiano”, insieme dramma dell’esistenza e garanzia della libertà. La quiete non si addice alla vita. E la sua vita è stata attivissima e mobilissima nella sua lotta per la libertà. Se ne ritrova una traccia recente nelle sue recenti, lucidissime, riflessioni sul lato oscuro del mondo lavoro, dove gli interessi giovanili trovano una lucida rivisitazione in una prospettiva filosofica e pratica di liberalismo progressista ed emancipatore. La quiete non si addice alla vita, dicevi. Le Tue idee vivranno in molti.

*Docente universitario

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