Favole e fiabe

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Ci risiamo. Torna la voglia di referendum. Un moto sociale che sale e si espande per abrogare la legge elettorale proporzionale. Dopo trent’anni pare ritorni il punto di domanda: a chi compete scegliere gli uomini che ci devono governare, e con essi i programmi da attuare? Alle segreterie dei partiti oppure direttamente al popolo? Insomma si tratta di stabilire se è ancora valido l’istituto costituzionale della “delega in bianco” che l’elettore conferisce alle forze politiche perché queste in seguito scelgano la “governance”. Ai tempi del referendum promosso da Mario Segni (nel 1993), vigeva il sistema del voto al partito e delle quattro preferenze per scegliere i candidati.

Il costo elevato per procurarsi la preferenza diveniva spesso criminogeno: uno scambio tra i finanziamenti da concedere ai candidati ed i favori da reclamare in seguito. Il peso della corruzione si era fatto insopportabile e di lì a qualche mese il ciclone di “Mani Pulite” sarebbe arrivato per spazzare via gran parte della classe politica di allora. La consultazione referendaria si rivelò un plebiscito: superò l’80 per cento dei voti validi, accogliendo il sistema maggioritario e la preferenza unica. L’Italia scoprì in quei mesi l’ebbrezza di poter decidere direttamente chi dovesse governarla e con quale coalizione farlo, eleggendo i tre quarti dei parlamentari in collegi uninominali ed il rimanente in liste proporzionali. Il presidente del Consiglio si identificava con il leader che capeggiava la coalizione vincente ed il parlamentare era scelto nell’ambito di un collegio delimitato territorialmente.

I partiti avevano l’interesse a candidare persone note e di prestigio sociale oppure professionale nel collegio elettorale per calamitare l’attenzione degli elettori. In ogni collegio il candidato più votato era quello eletto. Lo stesso più o meno avvenne negli enti locali con l’elezione diretta del sindaco, del presidente della Provincia e della Regione a completare il quadro di un potere non più delegato ma esercitato direttamente dagli elettori. Con quel modello, nessuno si sarebbe mai sognato di vedere, in una sola legislatura, come accaduto ai giorni nostri, ben tre governi, due dei quali con un identico premier ma con maggioranze di segno politico diametralmente opposto!

Il premio di maggioranza, costituito da un congruo numero di seggi parlamentari, previsto per la coalizione vincente, innescava, infatti, una virtuosa spinta ai partiti ad aggregarsi, anche oltre la momentanea contingenza elettorale, in maniera stabile e duratura. Il bipolarismo finiva col coincidere con una sorta di bipartitismo, ovvero di partiti che rappresentavano tutte le anime politiche della coalizione, segnando la fine dei piccoli cespugli. Questi ultimi esercitavano, prima e non dopo, innanzi agli elettori, la loro richiesta di partecipazione e la quota di potere loro spettante, affinché la coalizione li accogliesse ed il popolo rarificando col voto la proposta stessa. Insomma i corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama, dove si svolgeva il triste spettacolo delle compravendita di parlamentari per rinforzare una maggioranza quasi sempre uscita dalle urne risicata, chiudevano i battenti.

L’elettore sceglieva prima e direttamente da chi farsi governare e non a caso il sistema maggioritario risultò anche perfettamente alternativo nelle scelte di maggioranza del popolo. La durata dei governi si allungò fino a toccare una continuità ed una stabilità di durata mai vista prima nel regime repubblicano. Tuttavia il rovescio della medaglia non mancò come accade in tutte le cose del mondo. Anche il maggioritario ebbe qualche colpa nel moto degenerativo che aveva, comunque, investito la politica. La nascita di nuovi partiti legati alle persone più che ad un insieme di valori e di idee, sociali ed economiche, fu un dato distintivo del sistema maggioritario. Resta da stabilire se il fenomeno personalistico fu indotto maggiormente dalla naturale decadenza dei tradizionali partiti politici di massa, già prevista da Max Weber, oppure del populismo esemplificativo del sistema elettorale maggioritario.

Non bisogna infatti dimenticare che la trasformazione e l’innovazione tecnologica determinò nuove dinamiche sociali, innescando un processo di formazione rapida, capillare e superficiale dell’opinione pubblica. Un moto decisionale epidermico, frutto anche dell’informazione approssimativa e nazional popolare che giunse attraverso i canali del web. Comunque fosse, niente di paragonabile con la babele attuale della moltiplicazione delle molteplici offerte politiche identitarie, comunque rimaste legate alle identità personali più che alle idee.

Niente in confronto al mercimonio post elettorale di una delega data in bianco dagli elettori che votano ma non scelgono alcuno ed alcunché. Resta da decifrare se questo nuovo movimento referendario maggioritario nasca su una base di consapevolezza politica e morale come ogni bella favola, oppure si tratti solo di un racconto occasionale e tattico per fuorviare ed affabulare nuovamente gli elettori. Proprio come una fiaba.

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