Forza Italia: no al ‘re travicello’

Vincenzo D'Anna, già parlamentare

Ho auspicato, insieme a tanti altri politici e commentatori, che l’eredità di Silvio Berlusconi non venga dissipata, che il contenuto dell’originario progetto di un partito liberale di massa resti vivo e attuale. Che sulla scena dell’agire e del progettare politico, si tenga ben fermo il proposito, spesso banalizzato e disatteso dallo stesso Cavaliere (per tutelare altre sue necessità), di un effettivo rinnovamento istituzionale, sociale ed economico di una Nazione, la nostra, ancora preda della contraddizione di fondo che ne condiziona e minimizza le possibilità politiche. In sintesi: urge imboccare, una volta e per tutte, la strada che conduce all’ammodernamento della Costituzione superando la dicotomia tra Stato liberale e Stato socialista. Negli anni Novanta del secolo scorso, dalle macerie della prima repubblica, devastata dai processi di Tangentopoli e dalla sopraggiunta prevalenza dei magistrati sulla politica, Silvio Berlusconi propose un progetto rivoluzionario per il Paese, circondandosi di economisti, filosofi, politici e intellettuali di enorme spessore. Tutti furono coinvolti nella cerchia decisionale di Forza Italia, il partito voluto e fondato, nel 1994, dall’imprenditore di Arcore. Ne scaturì il più bel programma di governo e di efficientemente dello Stato cripto socialista che si fosse mai visto. Uno Stato che malversava il denaro del contribuente facendo debiti, assecondando e caricandosi di un’infinita rete di clienti che, in quanto tali, di mestiere fanno gli elettori. D’altronde, prigionieri com’erano della congiuntura geopolitica, ossia della guerra fredda tra l’Ovest liberale e capitalista e l’Est illiberale e marxista, i politici della prima repubblica avevano subìto (e a volte approfittato) l’impossibilità di garantire un’alternanza fisiologica al timone del governo. Quello che, forse per uno stato di necessità, ne scaturì, fu l’occupazione dei posti di comando da parte degli apparati di taluni partiti, che si identificarono con la gestione dello Stato stesso, con i comunisti relegati nelle schiere dell’opposizione. La caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Urss e del suo impero fatto di paesi satelliti, aprì a nuove, straordinarie, prospettive la politica tricolore. A ben vedere Tangentopoli fu solo il catalizzatore che ne velocizzò la realizzazione. Entrati in una nuova era, con i vecchi partiti cancellati e i nuovi venuti alla luce (Forza Italia, appunto, fu tra questi), venne alla ribalta, ovvero fu sdoganato, il liberalismo al quale si aggrapparono molte delle neonate entità partitiche. Parlare di liberalismo, ossia di un movimento liberale di massa, nella prima repubblica, equivaleva a pronunciare una bestemmia in chiesa, se non proprio l’espressione del più bieco capitalismo e di tutti i mali che ad esso venivanno inopinatamente addebitati. Insomma: con la fine del vincolo di appartenenza ad uno dei due blocchi egemoni – Stati Uniti e Russia dei Soviet – si aprirono buone prospettive e si sdoganarono concetti prima reietti e mistificati. Termini come individualismo, libero mercato di concorrenza, autonomia dei cittadini dallo Stato monopolista (e quindi pervasivo nella vita della gente), lotta al debito pubblico, sburocratizzazione dell’apparato statale, meno Stato e più mercato, furono adottati come “parole d’ordine” da più soggetti politici. Fu questo contesto a consentire la discesa in campo di un imprenditore di successo, quale era il fondatore di Mediaset, a rendere credibili i suoi propositi di rinnovare e liberare la politica dagli arcani del potere svuotando, al contempo, la greppia assistenziale e clientelare, fino a modificare il “sistema Paese” dai suoi monopoli. Berlusconi colse nel segno, attirando, con una nuova semantica e nuovi metodi di propaganda, il diffuso consenso elettorale di un popolo, quello italiano, sempre incline a mettersi in posizione di irresponsabilità e pronto a salire sul carro delle novità pur di ripulirsi la coscienza dai compromessi utilitaristici stipulati per decenni con la classe dirigente del passato. Come sia andata a finire quella rivoluzione, è storia recente e, quantunque il nostro sia un popolo di contemporanei che non ha memoria, tutti tendono a prendere le distanze, attendendo un nuovo corso dopo aver assistito alla misera fine di un’altra “rivoluzione” e dei suoi precetti morali: quella grillina. A chi consegnare allora questa nuova opportunità di rilanciare un partito liberale di massa che riprenda quello che si era promesso, ma poi non fu fatto, da Berlusconi? Non certo ai muti astanti che fino all’ultimo hanno sopportato ed avallato la senile satrapia del Cavaliere, né certo basta un Antonio Tajani che, al massimo, può recitare solo il ruolo del “re travicello” di cui si narra nella favola di Esopo allorquando le rane chiesero a Giove un governatore mite di carattere anche se alquanto incapace. Occorrerà la democrazia interna, un congresso vero e dirigenti scelti per consenso. Insomma: in Forza Italia c’è bisogno di politica. Ma di quella vera.
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