La bella estate

Vincenzo D'Anna, ex parlamentare

“Della mia infanzia non mi restava altro che l’estate. Le vie strette che sbucavano nei campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo. A quei tempi era sempre festa”. Così scrive Cesare Pavese nel suo romanzo “La bella estate”. Un pamphlet più che un libro quello scritto da uno dei più noti rappresentanti del neorealismo italiano. Pavese fu, a mio parere, un emulo di quegli intellettuali francesi che andavano sotto il nome di “poeti maledetti” per i quali il rifiuto del perbenismo e delle costumanze borghesi era un obbligo. Pensiamo a personaggi del calibro di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé. Gente che seppe guardare alla vita senza il solito sguardo “accomodante”. Così un altro grande poeta italiano, Giuseppe Ungaretti, in una sua celebre poesia, “Sono una creatura”, ci ricorda che la morte si sconta vivendo, rappresentando la vita come fatta di un brutto quarto d’ora punteggiato di momenti squisiti. Insomma, tornando a Pavese: la bella estate viene intesa come una sorta di parentesi nell’ambito di un sogno di felicità che dura pochi mesi nell’arco dell’anno. Nel caso di specie, si tratta della difesa della verginità morale e fisica della protagonista del libro, Gina, che si innamora di un pittore il quale, alla fine, riesce a conquistarla derubricando tutte le sue illusioni. Ed è appunto la disillusione la trama di fondo del romanzo, di come cioè arrivi, nella vita, il momento in cui gli occhi si aprono innanzi all’apparire della dura quotidianità del vissuto. E quando parliamo di “illusioni” non possiamo non pensare a quelle della politica e al vasto mare che separa, in questa arte di governo, il dire dal fare, il promettere dal mantenere fede agli impegni assunti. Se ci inoltriamo ancor di più lungo la strada della realpolitik, quella pragmatica che viene costruita quotidianamente dall’esecutivo con leggi e decreti, ecco allora che ci ritroviamo al cospetto di uno spaccato della realtà e della differenza che intercorre tra teoria e pratica. Abbiamo in sella, per volere del popolo sovrano, un governo di coalizione di centrodestra con alla guida la prima donna premier (e più giovane per età dei primi ministri) che la Repubblica italiana abbia mai visto dal 1948 ad oggi: Giorgia Meloni. L’attuale presidente del Consiglio è una che si è fatta da sola, che ha respirato, cioè, l’aria della dura gavetta di chi parte dal basso, di chi è disceso nell’agone politico per credo di valori, che ha costruito un partito – Fratelli d’Italia – e dei quadri dirigenti, certo cooptati, ma non privi di sintonia con le proprie scelte ideologiche. Piaccia o non piaccia bisogna dare atto, come ha ben saputo fare Massimo D’Alema, che la leader di FdI porta con sé il crisma delle vera politica: quella fatta di militanza e di impegno anche quando il movimento da lei capitanato era forza marginale e minoritaria in Parlamento. Sarà forse la rarefazione di questo archetipo politico, la diffusa ignoranza culturale e la scarsità del portato ideale che caratterizza la sprovveduta classe dirigente del Belpaese, resta il fatto che oggi Giorgia Meloni appare come un gigante tra i nani. Sa cosa vuole e sa come arrivarci, senza strafare e senza indietreggiare come fanno quelli che ben conoscono la caducità del potere e quanto precarie siano le stagioni della politica e la lealtà degli alleati. Sono cose che può conoscere solo chi al proscenio è arrivato dalla porta degli aspiranti attori, di quelli, per dirla con altre parole, che sono stati prima comparse, poi spalle ed infine “prime scelte” della commedia. Non sono l’agiografo della Meloni perché non ne conosco appieno la carriera, le amicizie e non sempre ne ho condiviso le posizioni politiche. Tuttavia so che ella è alla prova dei fatti e merita fiducia per quanto finora ha saputo realizzare in coerenza con il programma elettorale, a prescindere dalla condivisione o meno del medesimo. Rispetto ai governi che l’hanno preceduta, ondivaghi e contraddittori, la premier sa come mantenere una sua linearità di visione e di azione. Credo che la fondatrice di Fratelli d’Italia conservi ancora una forte spinta propulsiva verso il cambiamento, verso l’arduo lavoro di smuovere le acque stagnanti, di rinunciare ai compromessi e al solito italico “tirare a campare” per durare. In poche parole, ella coltiva ancora l’illusione che le cose si possano migliorare e correggere anche senza traumi e senza rivoluzioni farlocche o proteste di piazza che dir si voglia. Se il moderatismo – che resta un aggettivo, non un sostantivo in politica – ha un senso è proprio quello di “saper fare”, cambiare, senza sconquassi, ciò che si può fare. Durerà un’estate, come ci indica Pavese, un tempo ancorché bello ma limitato? Resisterà la giovane leader della destra italiana alle lusinghe del potere, alla tentazione di affidarsi solo ai fidati e non ai capaci, a tenere lontani gli zelatori interessati ed a fare senza patire disillusioni? C’è da augurarselo, così come c’è da augurarsi che, sul fronte opposto, l’opposizione, si crei una valida alternativa critica ma che sia propositiva e non solo lamentosa, che sia sale e lievito prima che ostacolo per iniziare la stagione  comune delle riforme. D’altronde, come si dice? Si deve correggere l’errore non demonizzare l’errante!

*già parlamentare

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome